Il caldo, la crisi che morde ancora, l’indifferenza per il prossimo che aumenta. Aggiungiamo un po’ di marcio che c’è nel cervello di alcuni… e le cronache ci raccontano di una nuova recrudescenza di atti di violenza sulle donne e di femminicidi.
L’efferatezza di alcuni di questi delitti impone l’obbligo a chi sta sulla ribalta politica di fare commenti e c’è chi chiede pene più severe per i responsabili. Quali?
Facendo due conti, però, la richiesta non ci convince. L’omicidio volontario unito spesso alla premeditazione e magari ai futili motivi, già determinano il massimo della pena. Se poi, quando si arriva al giudizio, le corti accettano quali esimenti la disperazione, lo stress e la sottocultura dell’aggressore, questa non è deficienza della norma penale, ma attiene al meccanismo con la quale si applica. Quindi, parlare di pene più severe è aria fritta.
Il cosa si può, e si deve, fare risiede a monte; nel fatto che le donne in via generale non ottengono risultati pari ai maschi nel lavoro, nella società e nella politica quasi a sancire un loro minor valore. E di fatto una conseguente minor tutela. In via più particolare, c’è il tema di tutte quelle violenze che anticipano l’omicidio. Molte delle vittime uccise, in precedenza sono state anche vittime di delitti minori che non hanno voluto perseguire, non sono state aiutate a denunciare o hanno preferito scordare.
Qui però il voler salvare una famiglia, il voler affermare che un abito di minor decoro è “invitante”, il voler giustificare un nesso causale tra un animo ferito e la reazione abnorme, è spesso deleterio. Qui la Società civile può fare molto per difendere una donna in pericolo.