La politica italiana impegnata sull’ipotesi di liberalizzarla dopo il placet di Cantone
Mi rifiuto di farmi una convinzione sulla questione della cannabis. Però, se me la dovessi fare, partirei dal concetto del danno fisico.
Svizzera e Olanda sono paesi che la vendono più o meno liberamente: hanno un’esperienza che ci possono trasmettere? Per la prevenzione degli stati d’ansia, nelle malattie degenerative e nella terapia del dolore questa è già coltivata e usata in Italia; anzi, sono i medici a chiedere un uso più ampio della cannabis.
Quindi la questione è tutta riferita ai giovani, anzi direi gli adolescenti, giacché l’estensione di “giovane” ai trentenni direi che è un po’ abusata. Quest’ultimi ne fanno uso e – a differenza delle sigarette per cui hanno solo da superare lo sbarramento della mancanza di codice fiscale – per acquisirla vengono a contatto coi pusher della malavita. Qui, si dice, che privare la manovalanza del crimine di questa fonte di guadagno condurrebbe a un indebolimento di quel serbatoio umano in cui prospera la criminalità più evoluta; lo stesso superdirigente Cantone ne è convinto. Tuttavia, esporre la società più giovane a un incerto perché da qui si raggiunge un risultato in un altro settore non mi convince.
E’ una via contorta e non può essere il motivo di una liberalizzazione erga omnes.
Sarei più convinto se ad essere liberalizzato per i giovani che sono il nostro futuro e la nostra speranza, fosse il lavoro, la cui carenza, o assenza, induce a depresse soluzioni di vita in cui il traguardo è lo sballo. Quindi, se la canapa indiana tornerà libera, almeno destiniamo questo lavoro a imprese fatte di giovani.