Addio olio di palma: ora per le industrie è scattata la corsa al burro


Indagine Coldiretti alla vigilia della Giornata Mondiale del Latte: a livello internazionale la produzione rischia di non soddisfare la domanda crescente

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I consumi di burro sono cresciuti del 7% negli Stati Uniti, del 5% in Argentina e del 4% in Asia come in Australia nel primo trimestre del 2017

ROMA – L’addio all’olio di palma in gran parte dei prodotti alimentari ha fatto scattare la corsa al burro, compreso quello made in Italy. Si assiste infatti a una carestia a livello internazionale di burro con una impennata dei consumi che ha messo a rischio le forniture alle industrie dolciarie, le principali utilizzatrici. Ad affermarlo è la Coldiretti alla vigilia della Giornata Mondiale del latte del 1° giugno, istituita dalla Fao nel 2001 che segna a livello planetario l’importante ritorno sulle tavole del primo alimento dell’uomo.

“Gli effetti – sottolinea la Confederazione – si fanno sentire anche a livello nazionale dove un numero crescente di imprese ha fatto la scelta “olio di palma free”. Le quotazioni del burro alla produzione in Italia a maggio sono quasi raddoppiate con un aumento di circa il 90% rispetto allo stesso periodo del 2016 alla Borsa di Lodi dove anche il latte spot ha superato i 41 centesimi al litro contro i 37 centesimi di appena tre mesi fa”.

Un riposizionamento importante che avviene a poco più di un mese dall’entrata in vigore, lo scorso 19 Aprile, della legge che obbliga ad indicare in etichetta l’origine per tutti i prodotti lattiero caseari.

Le importazioni di olio di palma per uso alimentare sono diminuite in Italia del 41% nei primi due mesi del 2017 con sei italiani su dieci che evitano di acquistare prodotti alimentari che lo contengono, a conferma della diffidenza che sta portando un numero crescente di imprese ad escluderlo dalle proprie ricette.

Le importazioni di olio di palma ad uso alimentare in Italia hanno invertito la rotta dopo essere più che raddoppiate negli ultimi 20 anni raggiungendo nel 2016 circa 500 milioni di chili. Uno sviluppo enorme nonostante che alle perplessità sugli effetti sulla salute si siano aggiunte le preoccupazioni sull’impatto ambientale che sta portando al disboscamento di vaste foreste, senza dimenticare l’inquinamento provocato dal trasporto a migliaia di chilometri di distanza dal luogo di produzione e, naturalmente, le condizioni di sfruttamento del lavoro delle popolazioni locali private di qualsiasi diritto.

Un andamento che si riflette anche a livello internazionale dove si assiste ad un aumento delle domanda con i consumi di burro che sono cresciuti del 7% negli Stati Uniti, del 5% in Argentina e del 4% in Asia come in Australia nel primo trimestre del 2017 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, secondo analisi della Coldiretti su dati Clal.

Il cambiamento ha coinvolto anche gli altri prodotti a base di latte e rende ancor più necessario per l’Italia valorizzare e sostenere il proprio patrimonio lattiero caseario dopo che negli ultimi dieci anni si è praticamente dimezzato il numero di stalle presenti, tanto da aver raggiunto il minimo storico di 30mila allevamenti, rispetto ai 60mila attivi nel 2005.

Un fenomeno causato dal crollo del prezzo pagato agli allevatori che è sceso per lungo tempo addirittura al di sotto dei costi di alimentazione del bestiame.

“Una situazione insostenibile che richiede una decisa inversione di tendenza, poiché da salvare ci sono i 120mila posti di lavoro nell’attività di allevamento da latte che generano lungo la filiera un fatturato di 28 miliardi, la voce più importante dell’agroalimentare italiano dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista dell’immagine del made in Italy” spiega la Coldiretti.