Lavoro agricolo e sfruttamento al centro della seconda giornata del Festival della Partecipazione. Gaetano Pascale, Slow Food Italia: «Ad alimentare la piaga del caporalato è un mercato che pretende di pagare 8 centesimi per un chilo di pomodori»
La cattiva moneta del «cibo ingiusto», insomma, finisce per scacciare quella buona: «È chiaro che più il compenso è basso – e più agiscono intermediari su quel prodotto – maggiore sarà la possibilità di generare lavoro sottopagato e sfruttamento. Questo è quello che succede quando il cibo diventa una commodity». Di tutto questo si parla a L’Aquila nella seconda giornata del Festival della Partecipazione, la manifestazione che per il secondo anno di fila Slow Food Italia, ActionAid Italia e Cittadinanzattiva, riunite nella coalizione Italia, sveglia!, organizzano nel capoluogo abruzzese.Il caporalato è un tema tanto drammatico quanto complesso, ma a volte può bastare qualche semplice cifra per chiarirne le cause: «Nella nostra società è il mercato a stabilire il prezzo: se un chilo di pomodori viene pagato 8 centesimi, l’azienda, per rimanere competitiva sul mercato, riserverà solo una parte di quel compenso ai lavoratori» spiega Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia.
Pascale sottolinea l’ottimo risultato raggiunto lo scorso anno con l’approvazione della legge sul caporalato (la 29/2016, nda), nella consapevolezza però che nessuna legge in materia è sufficiente se non si accompagna a un cambiamento culturale: «Per questo è importante la scelta di un consumatore informato, disposto a pagare di più a fronte del rispetto di certi criteri, tra cui il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani.
Come Slow Food portiamo avanti da anni l’idea di un’etichetta narrante, in grado di raccontare al consumatore la storia e le modalità di produzione di un alimento». Se è vero che la ricerca del profitto a tutti i costi schiaccia al ribasso i salari, infatti, non si possono certo esentare le aziende dalle loro responsabilità. Fare impresa in agricoltura rispettando non solo le leggi ma anche la dignità di chi lavora e l’ambiente è possibile, come dimostrano tante storie virtuose sul territorio. «Dobbiamo sostenere le realtà che lavorano bene, raccontare le loro storie perché servano da esempio» conclude Pascale, invitando ad affiancare alla protesta la proposta: «Spieghiamo alle persone perché comprare un chilo di zucchine da un’azienda virtuosa, sebbene a un prezzo più alto, sia giusto. La rivoluzione è culturale e tocca ai cittadini attivi condurla». La risposta delle istituzioni è affidata a Gabriella Di Michele, direttore generale Inps: «Negli ultimi anni sono state introdotte due leggi importanti per contrastare il fenomeno del caporalato: la prima ha introdotto la certificazione di filiera di qualità, la più recente il reato di caporalato. Certo la repressione non può essere l’unica risposta a un problema che riguarda un fenomeno, quello agricolo, che necessita di risposte specifiche e diversificate: oltre al problema dello sfruttamento c’è la violenza, l’immigrazione clandestina e altro ancora.
Per questo l’Inps ha introdotto una certificazione per tracciare il prodotto agricolo proveniente da una filiera rispettosa e di qualità. Ma finora sono solo 3300 le aziende certificate, su oltre un milione presenti in Italia. Inoltre disponiamo di appena 1400 ispettori, per cui la rete dei controlli non può essere l’unica forza schierata in difesa dei diritti dei lavoratori». La giornalista Laura Bonasera mette in guardia anche dalla minaccia del caporalato 4.0, un caporalato “in giacca e cravatta” molto più difficile da documentare: «Si tratta di casi in cui il datore di lavoro regolarizza il lavoratore con un contratto, magari attraverso un’agenzia interinale. Ma quando il lavoratore incassa l’assegno relativo al suo stipendio, ecco che deve spartirlo al 50% con il datore di lavoro per poter continuare a lavorare».
Bonasera ricorda anche l’esistenza di veri e propri ghetti abusivi, dove le baracche sono messe in affitto, dove nascono attività commerciali parallele dedicate ai braccianti degli accampamenti e luoghi dove le donne vittime di tratta sono obbligate a prostituirsi: «Farsi raccontare tutto questo dai braccianti è sempre molto difficile perché in tanti hanno paura di perdere il lavoro e di non riuscire a mantenere la propria famiglia».