Lo rivela una ricerca AIDEPI: la mangiano tutti (99%) e per il 48% è l’alimento preferito per ragioni di gusto o salute
ROMA – L’amore per la pasta, il rapporto quasi sentimentale che lega gli italiani ai piatti della tradizione, è retaggio antico. Non a caso, siamo leader mondiali di produzione (3,2 milioni di tonnellate) e consumo (24 kg a testa).
Ma quali sono le abitudini di consumo al Sud Italia, dove produzione e consumo di questo prodotto sono documentati già dal primo Medioevo?
Secondo elaborazioni di AIDEPI (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiane) su dati IRI, nel 2016 nel Mezzogiorno ne sono state vendute oltre 378mila tonnellate, il 36% del totale. Il doppio rispetto al Nord-Est e un terzo in più rispetto a Nord-Ovest e Centro. Di conseguenza il consumo è leggermente superiore alla media nazionale, con circa 25-26 chili pro-capite all’anno.
Una ricerca Doxa-Aidepi approfondisce questa fotografia analizzando la qualità percepita della pasta secondo gli italiani residenti al Sud.
Nel Mezzogiorno tutti o quasi la mangiano (oltre il 99%), in media 4-5 volte a settimana. Due curiosità mostrano uno scenario in evoluzione: i veri fan stanno spostando il baricentro geografico verso il Centro Italia, dove il 45% mangia la pasta tutti i giorni, contro il 32% del Meridione. E la porzione media di un piatto di pasta nel Sud è di circa 80 grammi a persona, registrando la percentuale più bassa del Belpaese.
Per il 48% dei meridionali la pasta è l’alimento preferito. La scelgono per ragioni di gusto o salute. La tipologia più acquistata è quella secca. Quasi 4 pacchi di pasta secca su 10 totali sono stati venduti a sud di Roma, mentre il Nord Ovest è leader per quella fresca.
Nel solco di questa tradizione, la novità è il crescente gradimento per la pasta integrale: quasi la metà del campione (47%) dichiara di acquistarla, mentre 3 anni fa erano solo il 14%.
La pasta torna al centro
La ricerca viene resa nota in occasione di una campagna di Comunicazione lanciata da AIDEPI per festeggiare i 50 anni della cosiddetta “legge di purezza sulla pasta”, (L. 580 del 1967) l’unica normativa del genere voluta dai produttori che, fissandone i limiti qualitativi, garantisce alla pasta italiana di essere sempre la migliore al mondo. “Vogliamo rimettere al centro la mano del pastaio, ingrediente invisibile e spesso dimenticato del nostro piatto simbolo” spiega Mario Piccialuti, direttore di AIDEPI.
“Alcuni vogliono far credere che per fare una pasta buona servano solo materie prime eccellenti, ma c’è molto altro. È importante che gli italiani riscoprano la passione, la storia, la ricerca, i test sensoriali e di laboratorio, insomma tutto l’impegno dei produttori dietro una ottima forchettata” aggiunge.
La qualità per gli italiani del Sud
Interrogati sui fattori di qualità percepita del prodotto, gli italiani di regioni come Campania, Abruzzo, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, tutte zone ad altissimo tasso di conoscenza e apprezzamento di questo alimento, rispondono in linea con l’opinione nazionale.
Anche al meridione, gli italiani mettono al primo posto tra gli indicatori di qualità della pasta il fatto che resti al dente e tenga la cottura (78%), che sia fatta con grano di qualità (71%) e che si leghi perfettamente al condimento (58%).
Se interrogati su origine (italiana) del grano, qualità del grano (indipendentemente dall’origine) e saper fare dei pastai, i nostri connazionali del Sud si confondono un po’ e mettono tutti e tre fattori più o meno allo stesso livello, con livelli di voto (da 1 a 10) che vanno da 8,6 a 9,1 per ciascuno dei 3 fattori.
Quasi 1 italiano del Sud su 2 ritiene inoltre che il rapporto esistente tra prezzo e qualità sia costante (più costa più è buona), il 31% dice di non percepire grandi differenze e il 22%, addirittura, di trovare più buona quella che costa meno.
Secondo Mario Piccialuti, “i risultati di questa ricerca confermano che anche per i consumatori del Sud d’Italia la vera pasta italiana è quella fatta dai pastai italiani con le migliori semole ottenute da grani duri di elevata qualità, italiani ed esteri. È così da sempre. Questo nostro piatto è frutto di una sapienza che si tramanda da millenni e sarebbe ingiusto, riduttivo e antistorico ricondurre la qualità di questo prodotto esclusivamente all’origine della materia prima, che da sola non basta a garantirne la qualità”.
“Il successo dipende soprattutto dal saper fare dei pastai italiani, che selezionano i grani migliori, per poi miscelarli nel modo giusto e produrre una pasta unica al mondo per sapore, profumo e tenuta in cottura” prosegue.
Pasta liscia mon amour
Ogni italiano ha il suo preferito tra gli oltre 300 formati di pasta censiti da AIDEPI, ma poi (geograficamente) l’Italia si divide da sempre in due, con Roma a fare da spartiacque tra due mondi e due filosofie, quasi inconciliabili. Dalla Capitale (esclusa) in giù la pastasciutta piace liscia, che con il 13% delle preferenze tocca le punte più alte di gradimento a livello nazionale.
“Da noi nel Sud d’Italia la pasta è quella liscia per antonomasia – commenta Giuseppe Di Martino, pastaio di AIDEPI e presidente del Consorzio Pasta di Gragnano IGP – e c’è una ragione ben precisa. Storicamente a Napoli, la pasta rigata veniva prodotta solo per i mercati del Nord. Era venduta dai Gragnanesi sul mercato di Roma e chiamata per questo “uso Roma”, da cui i famosi Rigatoni romani, ottimi con la pajata”.
“Vengono invece indicate uso Bologna le farfalle, un formato che riproduce la tradizione emiliana della pasta sfoglia e che richiede, sia in produzione che in cottura, un buon equilibrio tra le ali e il nodo. Stile ‘Napoli’ sono invece Ziti e Mafaldine insieme a tutte le variazioni di formati lisci” aggiunge.
Va detto che il 20% del campione sostiene che non esiste un formato migliore, ma tutto dipende dalle ricette. Lo conferma Di Martino: “Basta pensare al sugo alle vongole, impensabile senza uno spaghetto o una linguina. Sono formati perfetti per abbracciare il condimento e legarlo grazie alla leggera perdita di amido dalle sue “alette”. Allo stesso modo, è impensabile abbinare gli spaghetti a un sugo importante come un ragù napoletano perché è troppo “pesante” per essere catturato tra le spire di un formato così sottile. Molto meglio gli Ziti spezzati o lo spessore e la porosità di una fettuccina”.
Pasta rigata al Nord: c’è una spiegazione
Ma perché quella rigata veniva venduta al Nord e a cosa si deve il gradimento per questo formato da Roma in su? “Al Nord questi formati sono diventati popolari per mascherare possibili difetti di produzione dovuti a tempi di essiccazione più lunghi. Con la sua texture di “picchi” e “valli”, la pasta rigata in cottura espone all’acqua più superficie, resta più al dente nella sua parte spessa e rilascia più amido da quella più sottile” spiega Di Martino.
“Dà la sensazione di una pasta tenace anche quando è per metà sovracotta, mascherando eventuali difetti di produzione. Ecco perché questi formati erano popolari al Nord, dove prima dell’“invenzione” dell’essiccamento artificiale, l’assenza di un microclima prevedibile e stabile rendeva più lungo e problematico questo processo” spiega ancora.
“Nelle coste italiane del Sud, il clima temperato secco e prevedibile permetteva, invece, di asciugare all’aperto grandi quantità di pasta, con un basso rischio commerciale. Da noi i tempi dell’essiccazione variavano tra gli 8 e i 20 giorni d’estate, a seconda del formato e del livello di umidità. Al Nord potevano durare mesi…Ancora oggi a Gragnano dopo l’ora di pranzo arriva puntualmente, la brezza che dal mare si incanala nella nostra valle, portando con sé una percentuale di umidità che permetteva la produzione per 12 mesi all’anno, con risultato finale di qualità costante, uno dei segreti tramandati da secoli dai nostri pastai” conclude.