Dalla “scuola” sarda e pugliese alla valigia degli emigranti: viaggio alla scoperta del piatto più amato
ROMA – Il legame tra il Sud Italia e la pasta affonda le sue radici nella storia ed è arrivato fino ai giorni nostri. Nel Mezzogiorno tutti o quasi la mangiano (oltre il 99%), in media 4-5 volte a settimana secondo una recente indagine Doxa-AIDEPI (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiane).
Nel 2016 nel Mezzogiorno ne sono state vendute oltre 378mila tonnellate, il 36% del totale italiano e il consumo è leggermente superiore alla media nazionale, con circa 25-26 chili pro-capite all’anno.
Ma quali sono le curiosità legate a questo prodotto nel Sud Italia? Eccone dieci, selezionate da AIDEPI.
1. L’invenzione della pasta secca? A Trabia, in Sicilia
Le prime testimonianze relative alla produzione di pasta secca nel nostro Paese arrivano dalla Sicilia musulmana, in epoca medievale, nel corso del XII secolo. Il geografo arabo Idrisi parla di “un importante polo produttivo di pasta in forma di fili” a Trabia, vicino a Palermo, mettendola in relazione con l’attività molitoria già preesistente. E’ da qui che la pasta secca di semola di grano duro ha conquistato lo Stivale, passando per Napoli e arrivando a Genova, fino a coprire tutto il bacino del Mediterraneo.
2. Sardegna e Puglia fanno scuola nel XIV e XV secolo
Sotto la dominazione aragonese, Sicilia e Sardegna sono tra i principali centri di produzione di pasta secca del Mediterraneo. da lì la pasta partiva per Barcellona, Maiorca e Valencia, ma anche Genova, Napoli e Pisa. E nel Quattrocento si hanno testimonianze certe dell’attività di produzione di pasta secca in Puglia: località come Acquaviva delle Fonti, Gravina, Ascoli Satriano e Brindisi diventeranno celebri nell’arte pastaria dando vita ad un ricco commercio tale da far concorrenza a quello napoletano nel corso del XIX secolo.
3. La licenza “extraendi pastillos” concessa ai comandanti delle navi siciliane (e genovesi)
A dimostrare che questo alimento ha sempre amato il mare e i porti: nel XV secolo, un’ordinanza delle autorità di Palermo concedeva ai comandanti delle navi l’autorizzazione (“licentia extraendi pastillos”) a prelevare durante i viaggi tra i 10 e i 30 rotoli di maccaroni e vermicelli “per uso personale”. La stessa consuetudine era in uso anche al porto di Genova.
4. XVI e XVII secolo: estro e “ingegno” dei pastai napoletani
A cavallo tra questi due secoli si assiste ad un’importante evoluzione col passaggio ad un sistema di produzione più intensivo. La Campania applicherà per prima le innovazioni tecnologiche attraverso l’utilizzo della gramola a stanga, basata sul principio della leva per pressare l’impasto di acqua e farina, poi del torchio a trafila, un marchingegno che pressa la pasta lavorata su trafile modellate in varie fogge, dando vita a formati di pasta diversi tra loro. Senza il torchio a trafila, inoltre, non ci si poteva iscrivere alla corporazione dei pastai napoletani, come previsto negli statuti della corporazione del 1579. La pasta prodotta con questo macchinario verrà definita “d’ingegno” e diventerà sinonimo di pasta secca di alta qualità.
5. Nasce il mito di Gragnano e Torre Annunziata
In questo stesso periodo nasce l’industria manifatturiera della pasta di Torre Annunziata e di Gragnano che, grazie al sapere degli artigiani della pasta campani, all’ottimo grano duro a disposizione (importato soprattutto dalla Puglia e più avanti, dal Mar Nero, con la famosa varietà Taganrog) e ai capitali messi a disposizione dai primi mugnai-imprenditori locali, nel corso del XVIII secolo diventerà polo principale celebre in tutto il mondo. A Gragnano si moltiplicano i mulini che macinano il grano duro (diventeranno 25). Lo stesso accade a Torre Annunziata che diventerà, con la semola prodotta nei suoi mulini idraulici, fornitore ufficiale della città di Napoli. Alla fine del Settecento i 26 pastifici di Torre Annunziata producono già circa 445 quintali di pasta al giorno.
6. La pasta entra nell’alimentazione e nel folclore napoletano – e Pulcinella ne diventa simbolo
Cresce la produzione e cambiano consumi e abitudini alimentari. E i napoletani, fino al Seicento chiamati “mangiafoglie”, si guadagnano l’appellativo di “mangiamaccheroni”. A fine Settecento il consumo pro capite è di 14kg. Un’enormità se si pensa che i napoletani non arrivavano a consumare 30 kg di pane a testa.
Da fine Settecento, la pasta secca da piatto delle tavole nobiliari diventa cibo popolare per eccellenza perché è buona e costa poco. Si afferma come piatto unico dei poveri e, più timidamente, come “primo piatto” dei più benestanti, che la consumano 2 o 3 volte la settimana. E “incontra” Pulcinella, la maschera più conosciuta della tradizione partenopea. Secondo Anton Giulio Bragaglia “il principale attributo di Pulcinella sono i maccheroni (…) che egli può portare anche in tasca, già conditi e fumanti”, tratteggiando un’immagine che sarebbe tornata in un celebre film di Totò.
7. Il sistema di essiccazione “alla napoletana”, radiografia di un mito
Il segreto della qualità della pasta secca napoletana e gragnanese in fase preindustriale? Il connubio di ottima semola di grano duro e l’abilità dei pastai di sfruttare e un clima favorevole per un’essiccazione perfetta. Scirocco e Tramontana, con la loro alternanza di umido e secco, erano considerati ingredienti fondamentali del processo produttivo, da saper dosare e miscelare allo stesso modo di semola e acqua, per ottenere un prodotto di qualità. Per essiccare la pasta all’aria aperta a Napoli e dintorni servivano in media 8-10 giorni d’estate e 20-30 d’inverno… In genere gli Ziti (pasta molto consistente), in estate, erano pronti in 18 giorni mentre per spaghetti e maccheroni ne servivano circa 12. Molto meno per le pastine di piccolo formato. Le fasi dell’essiccazione della pasta erano tre: l’“incartamento”, con esposizione diretta al sole a circa 30 gradi, per qualche ora; il “rinvenimento”, ammorbidimento della crosta superficiale con il passaggio in cantine fresche a 15 gradi circa, per una notte; l’essiccazione “definitiva”, che durava qualche giorno, sotto portici o locali ben arieggiati con sbalzi di temperatura non troppo marcati.
8. Lo street food dei lazzaroni e la cottura “al dente”
Attorno a produzione e consumo di questo piatto è nato un fenomeno di costume segnalato più volte nei taccuini dei viaggiatori stranieri. La pasta è street food fumante mangiato dai “lazzaroni” con le mani. Una guida turistica dell’epoca consigliava agli stranieri di recarsi di sera dalle parti di Posta Massa, verso la Vicaria, per vedere come si mangiano i “maccheroni alla napoletana” e cioè con le mani, senza forchetta, sollevati mezzo palmo sopra la bocca e calati con un leggero movimento a spirale. Fa folclore anche l’abitudine a esporre spaghetti e maccheroni su telai o canne per la fase di essiccazione all’aria aperta che ha dato vita a qualche presa di posizione negativa per ragioni igieniche. Si scriveva nell’Ottocento che “il gran polverio che viene dal gran transitare d’ogni sorta di veicoli insozza e deturpa le paste”.
Sono sempre i napoletani ad imporre nel XIX secolo l’abitudine di consumarla “al dente”, cioè con il nerbo del grano ancora percettibile. Prima, infatti, la pasta veniva sempre stracotta per ore, soprattutto sulle tavole nobiliari del centro Nord, fin quasi a sfaldarsi. Sono contemporaneamente gli strati popolari e le famiglie benestanti napoletane, nei primi dell’Ottocento, ad introdurre la cottura al dente, o “vierd vierd”, gettando la pasta nell’acqua solo quando questa raggiungeva il bollore. Quasi contemporaneamente i “vermicelle con le pommodore” diventano un abbinamento quotidiano, fissato da Vincenzo Corrado nel suo “il cuoco galante”, dove trovano spazio anche altre ricette classiche come il timballo di maccheroni e il sartù di pasta.
9. Primi del Novecento: 7 dei 10 maggiori pastifici sono nel Sud
Anche dopo l’Unità d’Italia il Sud mantiene il suo primato nell’industria di settore. Nel 1882 a Torre Annunziata viene introdotta la pressa idraulica a gotto montante per trafilare i maccheroni, realizzata dall’Officina Pattison. E qualche anno dopo fa il suo ingresso la gramola a coltelli. Si tratta delle innovazioni che renderanno i primi anni del Novecento l’epoca d’oro della produzione pastaia del Sud. Solo a Torre Annunziata questa industria faceva vivere ben 3000 famiglie. Nel 1870 un pastificio di Bari impiegava ben 5 torchi idraulici e, ancora all’inizio del XX secolo, 7 dei 10 maggiori pastifici italiani hanno sede nel Mezzogiorno.
10. La pastasciutta nella valigia dell’emigrante
A cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pasta, ormai “bandiera” dell’alimentazione del Mezzogiorno, segue le rotte dell’emigrazione verso il Nord d’Italia ma anche verso il resto del mondo. E’ una fase decisiva del processo di espansione e di conquista dei mercati da parte di questo alimento, vista la consistenza del numero degli emigranti meridionali (quasi 4 milioni, solo verso l’America, in appena 10 anni, dal 1901 al 1910) e il loro attaccamento nei confronti di questo alimento, diventato nel frattempo una delle principali fonti di sostentamento in anni di carestia e povertà. Sono, così, consueti i viaggi in treno con le scorte di spaghetti, formaggi, salumi, olio, pane e vino raccontati anche sul grande schermo dal cinema neorealistico e dalla commedia all’italiana.