Il punto sull’assegno di ricollocazione presentato al Festival del Lavoro 2018: un milione di disoccupati rischia l’espulsione dal mercato del lavoro senza politiche attive efficaci
Dopo due anni di attesa l’assegno di ricollocazione è diventato operativo a maggio. Ad incidere sui tempi di attesa gli esiti della sperimentazione e del referendum del 4 marzo 2018. Così come l’avvio, da parte dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive, di procedure condivise con tutte le regioni. Tanta fatica, però, rischia di non servire a nulla. La platea potenziale dell’assegno di ricollocazione è nelle valutazioni dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro di quasi un milione di disoccupati. Un quarto dei potenziali beneficiari dell’assegno sono i disoccupati residenti nelle regioni della Campania (circa 120 mila) e della Lombardia (130 mila). Per chi non riesce a ricollocarsi in tempi brevi il tema della riqualificazione e dell’aggiornamento delle competenze è di assoluta priorità.
In attesa dell’operatività dell’assegno, infatti, questi lavoratori diventano progressivamente sempre meno appetibili per il mercato del lavoro. È quanto emerge dal report “Il punto sull’assegno di ricollocazione”, presentato al Festival del Lavoro 2018, con il quale l’Osservatorio esamina i potenziali destinatari e la macchina organizzativa che deve supportare la misura di politica attiva e presenta i risultati di un modello di profilazione che si basa su dati amministrativi.
Che cos’è l’assegno di ricollocazione
L’Assegno di ricollocazione nasce con l’obiettivo di aiutare il disoccupato nella ricerca di una nuova occupazione. Ha un importo che va da un minimo di 250 euro ad un massimo di 5.000 euro, a seconda del profilo di occupabilità della persona da ricollocare (dato dalle caratteristiche del candidato e dalla sua distanza dal mercato del lavoro). L’assegno non va direttamente al disoccupato, ma ai centri per l’impego e ai soggetti privati, autorizzati a fornire servizi di ricollocazione, solo nel momento in cui il disoccupato venga assunto.
L’assunzione deve avvenire con contratto a tempo indeterminato, anche in apprendistato, o con contratto a tempo determinato, maggiore o uguale a 6 mesi. Lo strumento prevede una forte integrazione tra i servizi per l’impiego pubblici e privati per assicurare al disoccupato un nuovo impiego in tempi rapidi e ridurre la spesa nazionale per le politiche passive, che annualmente pesa 17 miliardi di euro sul bilancio dello Stato.
Che fanno i centri per l’impiego?
Come emerge dal report, i servizi pubblici in Italia non sono in grado di rispondere alle esigenze della platea interessata dall’assegno di ricollocazione, potendo contare solo su neanche 8 mila dipendenti (rispetto ai 50 mila dipendenti francesi e ai 110 mila tedeschi). Tra i fattori che incidono sulla possibilità di trovare una nuova occupazione in tempi ridotti il territorio in cui risiede il disoccupato. Al Nord le opportunità di trovare lavoro sono maggiori e riducono, per questo, i tempi di ricerca. Anche la causa di cessazione del rapporto di lavoro incide fortemente sui tempi di rimpiego.
Il disoccupato a causa di un licenziamento ha più difficoltà nel trovare un reimpiego, a differenza di chi è disoccupato per scadenza di un contratto a termine, poiché nel corso della sua esperienza lavorativa ha già avuto modo di cercare nuove opportunità di lavoro.
Dal punto di vista delle Istituzioni pubbliche, accorciare i tempi del reinserimento è cruciale per ridurre l’esborso economico. Per il disoccupato, almeno fin che vi sia la copertura del sussidio, l’obiettivo è trovare un impiego “congruo e coerente” con il profilo personale del diretto interessato, e possibilmente anche stabile. Il rapporto mette in luce come solo con la stretta integrazione dei servizi privati nel processo di ricollocazione si potrebbero ottenere migliori opportunità di uscita per i beneficiari di Naspi.
L’assegno di ricollocazione ha una struttura che si basa sulla collaborazione fra servizio pubblico e servizi privati autorizzati ai servizi di ricollocazione. Nello svolgere la propria funzione di agevolatori del reimpiego, i soggetti e gli enti interessati devono tenere conto del grado di difficoltà implicito in ciascun individuo, mediante una tecnica nota come profilazione. Attraverso tale attività si recuperano anche le informazioni necessarie per ottimizzare il processo di reimpiego. Questo implica l’accesso ad una serie di informazioni individuali e alle opportunità occupazionali del luogo di residenza del disoccupato.
In Italia, dove si contano circa 3 milioni di disoccupati (dei quali il 58 % da oltre 12 mesi), la spesa complessiva per le politiche del lavoro è di 28,9 miliardi di euro (1,75% del PIL). In Francia la quota di disoccupati di lunga durata da oltre 12 mesi è del 43% (15 punti percentuali in meno dell’Italia) e la spesa in politiche del lavoro è di 46 miliardi di euro (2,52% del PIL). In Germania la spesa arriva a 65 miliardi di euro (1,51% del Pil), ma i disoccupati sono 1,9 milioni e meno della metà restano in questa condizione per oltre 12 mesi.
Mentre, per quanto riguarda il costo per i servizi (in tale categoria rientra soprattutto il costo del personale per il funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego), l’Italia spende 750 milioni l’anno per coprire il costo di meno di 8 mila dipendenti dei centri per l’impiego pubblici. In Francia 50 mila addetti dei pôle emploi per una spesa di 5,5 miliardi di euro. In Germania 110 mila addetti ai servizi per il lavoro sono accompagnati da un investimento che supera gli 11 miliardi di euro. In conseguenza delle scelte di allocazione di risorse in Italia, c’è il forte rischio che la spesa per le politiche passive vada fuori controllo.
La spesa per le politiche del lavoro in Italia è per il 74% (17 miliardi di euro nel 2016, inclusi i contributi figurativi) destinata alle politiche passive. Inoltre, metà della spesa per le misure di politiche attive è assorbita dagli incentivi all’assunzione (13% sul totale delle politiche attive e passive) e solo il 12% si concretizza in misure di politica attiva che non siano incentivi, quasi completamente rappresentate dalla spesa in formazione. In Germania e in Francia la spesa in politiche passive è rispettivamente del 58% e del 66%, mentre grandi investimenti sono rivolti ai servizi e alle politiche attive per i soggetti svantaggiati.