La Psicosi della Limonaia, monologo per tre attrici


Convince l’allestimento dell’ultimo lavoro di Sarah Kane firmato da Milopulos per il festival Intercity

Per l’apertura della nuova edizione di Intercity al teatro della Limonaia Dimitri Milopulos ha scelto un testo di Sarah Kane che è una vera e propria dichiarazione di suicidio. “4.48 Psicosi”, questo il titolo dell’atto unico, è stato composto dall’autrice inglese – che il teatro sestese ha portato per primo in Italia e alla quale ha dedicato buona parte di questo 31° Intercity London – pochi mesi prima di togliersi la vita nel 1999.

Un testo affilato come un rasoio, senza censure o freni. Imbastito con la tecnica del flusso di coscienza, schietto come si può scriverlo a ventotto anni vergando le parole sul proprio diario, quando il male di vivere è sempre più forte, e sai che a breve gli soccomberai. “Alle 4.48, quando la disperazione mi fa visita, mi impiccherò”. Una sorta di testamento che si può leggere anche, parafrasando Perec, nel senso di morte, istruzioni per l’uso.

Sarah Kane l’ha pensato come un lungo e tormentato monologo, dove 4.48 e le enigmatiche cifre che accompagnano il cupio dissolvi si riferiscono all’ora notturna in cui la protagonista ingaggia un feroce corpo a corpo con i suoi fantasmi. Milopulos, che oltre alla regia firma il disegno scenografico, ha sottolineato questa scansione cronologica che incombe su tutto il lavoro attraverso un enorme orologio sul fondo scena, con gli ingranaggi ben visibili, richiamandosi alle atmosfere chapliniane e al Metropolis di Lang. Le lancette corrono, poi si fermano, punteggiano le parole sussurrate e gridate, orchestrano con il loro suono meccanico l’universo infelice tratteggiato a penna da Kane.

Psicosi 4.48
Valentina Banci e Sonia Remorini, foto Enrico Gallina

La regia ha rintracciato nel testo un’opera monologante, una sinfonia per uno strumento solo, e l’ha come scomposto affidandolo a tre protagoniste diverse. Operazione originale, laddove solitamente gli allestimenti hanno sempre puntato su un’attrice sola (come in quello firmato da Claude Régy nel 2002 che vedeva in scena una magistrale Isabelle Huppert). Tre figure femminili colte in altrettanti momenti della vita, ma tutte accomunate dallo stesso destino di sperdimento e salto nel buio.  La giovane sognatrice che sarà presto disillusa, una Sonia Remorini un po’ acerba ma credibile nel ruolo della ragazza che ancora non sembra pronta ad arrendersi, look da dura e cuore tenero, e Valentina Banci, sofisticata ed elegante, si muovono sulla scacchiera del pavimento come pedine, mentre Teresa Fallai, con un vaporoso abito lungo, è seduta o sdraiata su un divano a fiori, a coordinare un copione esasperato e disperato al quale anch’ella si abbevera lungamente. Le parole e le immagini rimbalzano con forza dall’una all’altra in una partitura serrata che suona all’unisono, come uno strumento accordato da un lungo lavoro di coordinamento, con il contrappunto delle musiche di Marco Baraldi,  Rabbia, sfiducia, bisogno di amore, dolore, sono le coordinate di questa discesa verso l’abisso, che si conclude con il primo tentativo di suicidio, raccontato nel testo. “Cento di Lofepramina, quarantacinque di Zoplicone, venticinque di Temazepam, e venti di Mellerin”. Kane non sopravvisse al secondo tentativo.