Licia Lanera ha aperto la stagione del teatro Florida di Firenze con “The black’s Tales Tour”, la rivisitazione in chiave dark di alcune delle più celebri fiabe per l’infanzia
Una dominatrice in lattice nero e stivaloni che impugna un microfono come fosse una frusta, e ci riversa dentro sospiri e gemiti e grida, lusinghevoli o minacciosi. E fiabe soprattutto, private degli elementi più zuccherosi. Licia Lanera si presenta così, nuda e cruda diremmo, per “The Black’s Tales Tour”, la sua personale rivisitazione di alcune celebri fiabe del passato, da Grimm a Andersen, che ha aperto la nuova stagione del Teatro Florida di Firenze dopo il debutto al Festival delle Colline Torinesi lo scorso anno.
Si materializza sul palco come una presenza inquietante, un incubo notturno sottolineato dalle luci di Martin Palma che inizialmente ne amplificano a dismisura i contorni per poi riportarla ad una dimensione umana.
Biancaneve, La Sirenetta, la Regina delle Nevi, Cenerentola e Scarpette Rosse, nella scrittura di Lanera sono scomposte fino agli elementi costitutivi, quelli che Propp nel suo celebre saggio dedicato al genere indicava come “funzioni”, mentre si calca la mano sui personaggi e sulle situazioni più pulp, liberandoli di quell’aura consolatoria e un po’ ipocrita che la tradizione e Disney hanno consacrato. La parte cattiva delle fiabe viene finalmente liberata, perché “Io la notte non dormo, sono tre anni che non dormo, e vorrei che stanotte non dormissi nemmeno tu” minaccia furiosa questa creatura mortifera, che sembra vivere delle sue stesse paure che adesso ci riversa addosso. Mentre le musiche originali dal vivo di Tommaso Qzerty Danisi danno il contrappunto a questa bulimia di crudeltà, agìta in un dispositivo scenico ridotto all’essenziale da Giorgio Calabrese.
Un rito di passaggio dall’età infantile a quella adulta e attraverso vari stati d’animo, perché le minacce sussurrate e poi gridate nel microfono lasciano il posto alla disperazione e allo sperdimento, alla favola amara del proprio disagio esistenziale. Nella narrazione si sgretolano le icone del mondo fatato ma si incrina e si polverizza pure la corazza della voce narrante. Che sul finale, insieme a una meno convincente virata surreale alla Ionesco, rivela il suo anelito verso l’immortalità anagrammando una manciata di grandi lettere nere fino a fissare un solo concetto: eternità.