Carne e santità nello spettacolo “Immacolata concezione” di Vucciria Teatro in scena al teatro fiorentino di Rifredi. La recensione
Una storia insieme crudele e dolce che potrebbe arrivare dalla penna di Borges, per via di una protagonista dolente ma di un’ingenuità e di una forza disarmanti, al centro di una vicenda di carnalità e mistica che la animano dall’inizio alla fine. Invece questa “Immacolata concezione (andata in scena al teatro fiorentino di Rifredi dal 7 al 9 marzo) la dobbiamo alla penna di un autore nemmeno trentenne, il catanese Joele Anastasi, che con Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano – tutti e tre in scena – animano la compagnia Vucciria Teatro.
La vicenda, vincitrice della quinta edizione dei Teatri del Sacro 2017, è quella di Concetta, venduta dal padre in cambio di una capra gravida alla tenutaria di un bordello, donna Anna. Siamo in Sicilia, alla fine degli anni Trenta, e Concetta – interpretata da una convincente Federica Carruba Toscano – è tanto carnalmente straripante e suo malgrado seducente quanto semplice, portatrice di un’innocenza quasi sacra. “Babba” la chiamano, “sciocca”. Concetta entra in scena con un fragore di campanacci, nuda, al guinzaglio dei pastori, come un’animale da sacrificare, sorridente come chi non immagina il destino che lo attende. Sempre legata, attraversa la platea verso il palcoscenico, al centro del quale troneggia una sorta di giostra, un’edicola girevole, che attraverso una serie di tendaggi palesa o nasconde quello che avviene al suo interno, la sua stanza da signorina del bordello, il suo regno e la sua prigione. Il padre che l’ha condotta fin qui, interpretato da Joele Anastasi, si trasforma arditamente sotto i nostri occhi, a fil di proscenio, in donna Anna, la tenutaria del bordello. Mentre racconta le vicende che l’hanno condotto in miseria, obbligandolo alla vendita della figlia, la voce si fa via via meno bassa e profonda, la gestualità si addolcisce, e aiutato dagli altri attori si toglie la camicia e i pantaloni per indossare calze e abiti femminili, in una prova di mimesi attoriale che lascia sorpresi per naturalezza e grazia di conduzione.
Intanto, lavata e abbigliata a dovere, Concetta diventa una delle signorine del bordello, anzi in breve diventa quella più ricercata, più voluta da tutti gli uomini del paese. Tutti la vogliono, ma lei non fa l’amore con nessuno, almeno non nel senso tradizionale. Concetta è vergine, semplicemente si dà con l’innocenza del suo sguardo e la sua mancanza di pudore alla fila di maschi fuori dal suo baldacchino: cuochi, lavapiatti, camerieri in livrea e soprattutto il notabile del paese, don Saro (Enrico Sortino). Concetta è sicura, crede che questo significhi fare l’amore: fare la barba o giocare a un due tre stella o offrire il petto per le lacrime del signorotto. “E mi ficiru santa perché li ho guardati negli occhi per la prima volta. Perché gli ho detto che cu’ mia putevano piangere e ridere e di nuovo piangere e arristari omini. U me nomi e’ amuri. Iu sugnu Immacolata. Immacolata Concezione.”
Ma quando l’amore carnale arriverà, con Turi (l’ottimo Alessandro Lui), il finale sarà tragico, e la trasfigurazione della protagonista da signorina a santa sarà completa, perché nella gravidanza perderà la vita, mentre la storia da reale si colora di mito, con un’aura che riecheggia una Sicilia arcaica e primitiva, richiamata dalla leggenda di Colapesce, che narrata da Turi a Concetta punteggia la loro storia d’amore.
Tutti gli attori in scena, a parte la protagonista, interpretano più ruoli, anche femminili, in un alternanza di cambi d’abito e d’attitudini ben congegnati, con il prezioso contrappunto delle luci di Martin Palma, capaci di riprodurre certe atmosfere d’antan e punteggiare monologhi e scene corali. La musica di Davide Paciolla, ora dolente, ora più gioiosa, sottolinea senza enfasi la narrazione. Il regista Anastasi, che come detto firma anche il testo di questo lavoro, imbastisce una drammaturgia che senza scendere nel pietismo verista – di una storia tutta siciliana d’altronde si tratta – preferisce indirizzarsi verso un realismo magico nostrano, bagnato però da un andamento sudamericano e latino, con una freschezza inventiva che capita di rado di vedere sul palcoscenico.