Nella sala fiorentina di Rifredi arriva una versione tutta al maschile , come da tradizione elisabettiana, del divertente classico di Shakespeare, la Bisbetica domata, con la regia di Andrea Chiodi. Nel ruolo del titolo uno spumeggiante Tindaro Granata
Amore e interesse, finzione e travestimenti, sono gli elementi che caratterizzano “La Bisbetica domata”, il divertente classico di William Shakespeareche arriva al Teatro di Rifredi il 4 e 5 aprile, alle ore 21, nell’allestimento, come da tradizione elisabettiana, tutto al maschile curato dal regista Andrea Chiodi; l’adattamento e la traduzione sono di Angela Demattè. Prodotto da LuganoInScena e dal Teatro Carcano di Milano, lo spettacolo è interpretato da Tindaro Granata, nel ruolo di Caterina, Angelo Di Genio, in quello di Petruccio, e Ugo Fiore, Igor Horvat, Christian La Rosa, Walter Rizzuto, Rocco Schira e Massimiliano Zampetti.
“La bisbetica domata” o “addomesticata” come si tradurrebbe alla lettera, è una delle prime commedie di Shakespeare, la più contorta, scorretta e, forse, la più discussa per la sua palese misoginia. Una commedia che, suo malgrado, ci fa ridere perché piena di atrocità e di strani rapporti, dove l’amore non è amore ma interesse e dove la finzione è uno dei suoi primi ingredienti. Per questo il regista ha scelto, come usava all’epoca del Bardo, il gioco del “teatro nel teatro” e della recita “en travesti”, a sottolineare la falsità dei rapporti fra i personaggi e la poca naturalezza di questi cuori selvatici da addomesticare.
La storia è quella di un gruppo di ricchi signori che, per far credere all’ubriacone Sly, qui ribattezzato Smalizia, di essere anche lui un gran signore, improvvisamente impazzito ma poi rinsavito, per festeggiarlo orchestra una gelida farsa con la vicenda della scontrosa Caterina, trasformata nella più docile delle spose da Petruccio, portata all’altare per la dote e poi ammaestrata secondo i suoi voleri.
Al centro di questa incisiva versione del capolavoro shakespeariano vi è la forza delle parole, come spiega Andrea Chiodi nelle sue note di regia: «Per mettere in scena questo autore, per capirne i pensieri non si può che appoggiarsi alle parole del testo, farle diventare vita e azione in palcoscenico. Come sono queste parole? Le parole finali di Caterina sono terribili. L’ordine che propone insopportabile. Eppure suscitano un fascino ambiguo. Star di fronte alla società umana, che è vita e dilemma, che può precipitare nel caos, può essere molto problematico. Il genio di Shakespeare ci fa sentire la tentazione di un ordine assoluto, definitivo. Il potere della parola coercitiva, anche se irragionevole. Petruccio, sempre con la parola, ci rende partecipi della sua soddisfazione. Ecco che Caterina cede, si sottomette. Impara a non compromettere più la parola con la vita, con le emozioni e i sentimenti. Impara ad usarla come arma, strumento di potere e di coercizione. E così riporta l’ordine dentro una società che ha perso forza perché ha perso la sacralità della parola»
In uno spazio aperto, senza alcuna scenografia, i personaggi, vestiti di semplici casacche con ricamato sul dorso il nome del proprio personaggio, entrano in scena su veloci trabattelli, dando ritmo all’intera struttura di questa “Bisbetica domata” che si prende qualche libertà e non solo a parole. Così può succedere di ascoltare Love me tender di Elvis Presley e Magic Moments di Perry Como, che ci si lasci andare a qualche ballo sfrenato nel gioco incessante del «mi vuoi o non mi vuoi?» e che il birignao francese si sposi alla parlata popolare.
“La bisbetica domata” o “addomesticata” come si tradurrebbe alla lettera, è una delle prime commedie di Shakespeare, la più contorta, scorretta e, forse, la più discussa per la sua palese misoginia. Una commedia che, suo malgrado, ci fa ridere perché piena di atrocità e di strani rapporti, dove l’amore non è amore ma interesse e dove la finzione è uno dei suoi primi ingredienti. Per questo il regista ha scelto, come usava all’epoca del Bardo, il gioco del “teatro nel teatro” e della recita “en travesti”, a sottolineare la falsità dei rapporti fra i personaggi e la poca naturalezza di questi cuori selvatici da addomesticare.
La storia è quella di un gruppo di ricchi signori che, per far credere all’ubriacone Sly, qui ribattezzato Smalizia, di essere anche lui un gran signore, improvvisamente impazzito ma poi rinsavito, per festeggiarlo orchestra una gelida farsa con la vicenda della scontrosa Caterina, trasformata nella più docile delle spose da Petruccio, portata all’altare per la dote e poi ammaestrata secondo i suoi voleri.
Al centro di questa incisiva versione del capolavoro shakespeariano vi è la forza delle parole, come spiega Andrea Chiodi nelle sue note di regia: «Per mettere in scena questo autore, per capirne i pensieri non si può che appoggiarsi alle parole del testo, farle diventare vita e azione in palcoscenico. Come sono queste parole? Le parole finali di Caterina sono terribili. L’ordine che propone insopportabile. Eppure suscitano un fascino ambiguo. Star di fronte alla società umana, che è vita e dilemma, che può precipitare nel caos, può essere molto problematico. Il genio di Shakespeare ci fa sentire la tentazione di un ordine assoluto, definitivo. Il potere della parola coercitiva, anche se irragionevole. Petruccio, sempre con la parola, ci rende partecipi della sua soddisfazione. Ecco che Caterina cede, si sottomette. Impara a non compromettere più la parola con la vita, con le emozioni e i sentimenti. Impara ad usarla come arma, strumento di potere e di coercizione. E così riporta l’ordine dentro una società che ha perso forza perché ha perso la sacralità della parola»
In uno spazio aperto, senza alcuna scenografia, i personaggi, vestiti di semplici casacche con ricamato sul dorso il nome del proprio personaggio, entrano in scena su veloci trabattelli, dando ritmo all’intera struttura di questa “Bisbetica domata” che si prende qualche libertà e non solo a parole. Così può succedere di ascoltare Love me tender di Elvis Presley e Magic Moments di Perry Como, che ci si lasci andare a qualche ballo sfrenato nel gioco incessante del «mi vuoi o non mi vuoi?» e che il birignao francese si sposi alla parlata popolare.