Per l’ultimo spettacolo della stagione 2018/2019 del Teatro della Pergola di Firenze, da martedì 9 a domenica 14 aprile Giancarlo Sepe dirige gli attori della Compagnia del Teatro La Comunità in Barry Lyndon (Il creatore di sogni) tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray e che fa sue le emozioni dell’omonimo film capolavoro di Stanley Kubrick
Caratteri, situazioni, paesaggi e storie lontane, ma forti e indimenticabili. Le memorie di Barry Lyndon, scritto nel 1844 da William Makepeace Thackeray, parla di cose giuste e ingiuste, del sacro e del profano. Tutto per entrare nella vita, e coglierne il meglio, del perfetto arrampicatore sociale qual è Redmond Barry di Barry du Barry. La forza di questo personaggio millantatore arriva al Teatro della Pergola con l’ultimo spettacolo della stagione 2018/2019. Giancarlo Sepe dirige gli attori della Compagnia del Teatro La Comunità in Barry Lyndon (Il creatore di sogni) da martedì 9 a domenica 14 aprile. Una produzione Associazione Teatro La Comunità 1972, Teatro di Roma.
“Barry mostra la sua battaglia per trasformare la sua vita in qualcosa di bello e travolgente – dice Giancarlo Sepe – sin dalle prime battute, sin dal suo amore per la cugina avida e civetta, che da quel momento lo costringerà a una discesa agli inferi ineluttabile e drammatica. S’innamora della donna che, da borghese campagnolo, lo trasformerà nel conte di Lyndon – prosegue – senza remore e tentennamenti, varca le soglie dell’aristocrazia e scompagina una realtà che non conosce, solo con il preteso ‘buonsenso’ delle persone comuni, troppo poco. Il suo nuovo mondo gli appare magico e spettrale, come se gli altri fossero fantasmi nel buio e, invece, sono i nobili, che lo detestano perché non appartiene alla loro casta”.
Lo spettacolo con Francesco Barra, Sonia Bertin, Mauro Brentel Bernardi, Gisella Cesari, Silvia Como, Tatiana Dessi, Eugenio Mastrandrea, Riccardo Pieretti, Antonia Renzella, Giovanni Tacchella, Guido Targetti e con Luca Biagini comincia con la Sarabandadi Händel, un omaggio a Stanley Kubrick che ha consegnato Barry Lyndon nel 1975 alla storia del cinema mondiale.
“Se non avessi visto il film – spiega Sepe – non avrei mai deciso di fare questo spettacolo, perché non conoscevo il romanzo di Makepeace Thackeray. In Kubrick si parla in terza persona del protagonista, mentre nel romanzo Barry si esprime in prima persona e questo è un aspetto affascinante che riprendiamo in scena: il personaggio si rivolge direttamente alla platea. Egli, quindi, palpita e vibra, raccontando al pubblico le sue storie e le sue disavventure. Si aprono squarci di verità improvvise: Barry fa i conti con la propria coscienza”.
Il teatro dà l’opportunità di mettere in scena una cronaca dei fatti in tempo reale, con un racconto a tutto tondo. Come in una sorta di confessione di un cabarettista degli anni Sessanta, Barry Lyndon dice tutto e il contrario di tutto: bugie e verità, cose sconvenienti e cose patriottiche, narra dell’amore e dell’odio. Le scene e i costumi sono di Carlo De Marino, le musiche a cura di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team, la preparazione canora di Giorgio Stefanori, le luci di Guido Pizzuti.
“La luce è l’elemento scenico predominante – interviene Sepe – il teatro è un’altra cosa rispetto al montaggio cinematografico, anche se io provo sempre a incrociare i due linguaggi, creando delle dissolvenze narrative, sostenendo una combinazione di avvenimenti che procedono nel tempo. Un altro elemento importante – aggiunge – è la presenza di un albero genealogico che campeggia al centro del palco: è l’albero genealogico della famiglia di Barry, un espediente visivo molto indicativo, perché Barry prova un grande senso di appartenenza a questa famiglia”.
Egli vuole far credere di provenire da una famiglia aristocratica e altolocata caduta, però, in rovina, mentre, in realtà, sono dei campagnoli che vivono lavorando come fattori: è la madre che sollecita in lui il desiderio di una vita ‘altra’, piena dei merletti, del trucco, della cipria e delle danze della nobiltà. L’aspirazione della madre è di entrare nel mondo dell’aristocrazia: un’ambizione a cui Barry Lyndon tende nel corso di tutta l’opera.
“Si fa un viaggio che si snoda tra la parola e il movimento – osserva Giancarlo Sepe – è un gioco divertente, in cui si attua anche l’aspetto più ironico del racconto. Il sogno è perenne. Barry Lyndon non possiede materialmente nulla, la sua unica forza è lo studio. È una persona pratica e materialista, non un idealista, che però sogna continuamente”.
Le parole di Barry Lyndon (Il creatore di sogni) prendono forma come in un gioco da teatro delle ombre, fatto di luci che attraversano lo spazio buio della notte, tra immagini che sono solo e sempre le proiezioni dei desideri di Barry stampate nel firmamento. Non diventeranno mai una realtà da vivere fino in fondo, piuttosto un incubo da cui fuggire, per poi ricadere in qualcos’altro che assomiglia a un trionfo, ma che altro non è che una nuova sconfitta.
“Il Settecento, il secolo in cui è ambientata la vicenda – conclude Sepe – è per certi aspetti illuminato, ma è anche l’epoca dell’arrampicata sociale da parte delle classi meno abbienti, a scapito dei più ricchi e di nobile estrazione. Come si dice nel romanzo e anche nello spettacolo, per andare avanti nella vita bisogna saper ‘danzare’, nel senso di lottare, e in particolar modo in questo caso lottare di scherma…”