Alzheimer di grado lieve o moderato: nilvadipina aumenta il flusso ematico cerebrale nell’ippocampo secondo i risultati di un nuovo studio denominato NILVAD
I pazienti con malattia di Alzheimer (PD, Parkinson’s disease) di grado lieve o moderato che hanno assunto nilvadipina mostrano un aumento del flusso ematico cerebrale nell’ippocampo, secondo i risultati di un nuovo studio, denominato NILVAD, pubblicati online su “Hypertension”.
Il flusso ematico cerebrale in altre regioni del cervello non è invece cambiato in modo significativo negli pazienti che hanno assunto il farmaco antipertensivo nilvadipina, secondo gli autori della ricerca, guidati da Jurgen A.H.R. Claassen, del Centro Medico Universitario Radboud di Nijmegen (Olanda).
Una riduzione del flusso ematico cerebrale rappresenta un marker precoce della malattia di Alzheimer e lo studio SPRINT MIND ha già suggerito che il controllo intensivo della pressione arteriosa può ridurre il rischio di decadimento cognitivo.
I risultati di questo studio, affermano i ricercatori, «non solo indicano la preservata autoregolazione cerebrale per l’Alzheimer, ma sottolineano anche benefici effetti cerebrovascolari del trattamento antipertensivo».
«Una questione importante» aggiungono «è se questo aumento osservato nel flusso ematico cerebrale si traduca in benefici clinici. Sfortunatamente, le dimensioni del campione erano troppo piccole e il tempo di follow-up troppo breve per studiare in modo affidabile gli effetti sulle misure sia strutturali del cervello sia cognitive».
La nilvadipina è un antagonista del calcio diidropiridinico usato per trattare l’ipertensione (sotto studio anche in Italia per il trattamento del PD). Nel trial NILVAD, i ricercatori hanno valutato gli effetti di nilvadipina rispetto al placebo in circa 500 pazienti con PD.
Lo studio, durato 18 mesi, non ha rilevato effetti benefici della nilvadipina sulla funzione cognitiva, ma analisi di sottogruppo di un altro studio (PLoS Med. 2018 Sep 24; 15 [9]: e1002660) hanno suggerito un potenziale beneficio tra i pazienti nelle prime fasi della malattia.
L’analisi del flusso ematico cerebrale costituiva un sottostudio prepianificato del NILVAD progettato per valutare in che modo 6 mesi di trattamento con il farmaco influenzassero il flusso ematico cerebrale misurato utilizzando l’etichettatura degli spin arteriosi alla risonanza magnetica (RM). Più in dettaglio, Claassen e colleghi hanno esaminato il flusso ematico cerebrale nella materia grigia del cervello intero e in regioni specifiche come l’ippocampo.
L’analisi del sottostudio comprendeva 22 pazienti malati di Alzheimer che hanno ricevuto nilvadipina e 22 che hanno ricevuto il placebo durante lo studio randomizzato in doppio cieco. I partecipanti avevano un’età media di 72,8 anni e un punteggio medio al Mini-Mental State Examination di 20,4. A 6 mesi, la nilvadipina ha abbassato la pressione sistolica di 11,5 mm Hg e il flusso ematico cerebrale della materia grigia di tutto il cervello è rimasto stabile.
Il flusso del sangue verso l’ippocampo è aumentato di circa il 20% tra i pazienti trattati con nilvadipina (di 24,4 ml/100 g al minuto verso l’ippocampo sinistro e di 20,1 ml/100 grammi al minuto verso l’ippocampo destro). L’aumento del flusso ematico cerebrale nell’ippocampo potrebbe essere correlato agli effetti antiipertensivi della nilvadipina o ai suoi effetti sulla beta-amiloide, osservano gli autori.
«Questi risultati indicano che la nota diminuzione del flusso ematico cerebrale nei pazienti con PD in alcune regioni può essere invertita» scrivono. «Anche se nessun trattamento medico è privo di rischi, assumere un trattamento antiipertensivo potrebbe essere importante per mantenere la salute del cervello nei pazienti con PD» ha specificato Claassen in una nota.
«In futuro, dobbiamo scoprire se il miglioramento del flusso sanguigno, specialmente nell’ippocampo, può essere usato come trattamento di supporto per rallentare la progressione del PD, specialmente negli stadi precoci di malattia».
I ricercatori scrivono che sono mancati i biomarcatori per confermare la diagnosi di PD. La maggior parte dei partecipanti allo studio erano europei bianchi, il che «limita l’estrapolazione dei dati ad altre popolazioni» aggiungono.