Terminata domenica 7 luglio la settima edizione del festival Orizzonti Verticali a San Gimignano: la recensione degli spettacoli teatrali visti gli ultimi due giorni
Si può trasformare la vocazione di un luogo? Scardinare il genius loci preesistente cercando di indirizzare abitanti e turisti verso uno scenario diverso? A San Gimignano c’è un festival che ci sta provando, ormai da sette edizioni. Creando un’alternativa alla città dei percorsi obbligati, il Duomo, la Rocca, le torri, i pici al sugo, i negozi di souvenir. Disegnando percorsi inconsueti, tracciando traiettorie inedite per movimentare le coscienze e i desideri.
Il nome del festival è un ossimoro, di quelli felici. “Orizzonti Verticali”, perché la voglia è quella di sparigliare le carte, incrociare le coordinate, su e giù, nord e sud, piantare semi aspettando che germoglino. I direttori artistici Tuccio Guicciardini e Patrizia De Bari hanno impaginato un cartellone dipanato in cinque giorni – quest’anno tra il 3 e il 7 luglio – mischiando teatro, danza, musica, performance e incontri, all’insegna dell’interdisciplinarietà delle arti. Tra la Galleria Continua, la Rocca, il Palazzo Comunale e quello della Propositura a Orizzonti Verticali si sono alternati spettacoli di artisti provenienti da varie esperienze creative, appartenenti a diverse generazioni della scena contemporanea.
Tra gli spettacoli visti a Orizzonti Verticali c’è stato un primo studio de “L’imputato non è colpevole”, diretto da Tuccio Guicciardini, che affronta la questione del massacro della popolazione armena che si è svolto in Turchia tra il 1915 e il 1916. Un genocidio ancora oggi negato dai turchi, una ferita ancora aperta per il milione e mezzo di familiari delle vittime. Questo buco nero del secolo scorso è stato oggetto di un film dei Fratelli Taviani, “La masseria delle allodole” del 2007, pellicola che e diventata poi uno spettacolo teatrale nel 2018 con la regia di Michele Sinisi.
Per il suo lavoro Tuccio Guicciardini si è ispirato invece agli atti di un processo che si è svolto nel 1921 a Berlino. Sul banco degli imputati uno studente armeno, Soghomon Tehlirian (intepretato da Sebastiano Geronimo), accusato di aver ucciso a Berlino Talaat Pasha, ex ministro degli interni turco e uomo forte del governo dei “Giovani Turchi”, le forze responsabili del massacro armeno. Pubblico disposto su due lati della sala, mentre sugli altri due lati, a diversi metri di distanza, giudice e imputato, ciascuno con un microfono, come in un vero processo. Entrambi sono seduti, il giudice davanti a un tavolo, un’icona russa alle spalle. Nessuna musica di sottofondo, solo rumori di cavalli, di spari di fucili, grida, mentre va in scena il serrato botta e risposta, l’interrogatorio del giovane armeno che non nega il suo operato. Geronimo rende con convinzione la rassegnazione e il senso di giustizia che trapela da Tehlirian, che ha visto trucidare la propria famiglia, padre, madre e sorelle ad opera dei turchi. Spaesato e compìto nel raccontare i fatti, misurato nei gesti e nelle espressioni, forte del sopruso che ha subìto che sembra giustificare il suo atto violento. Il giudice, reso con intensità da Bob Marchese, snocciola una serie di fatti, incalza con le sue domande, batte il pugno sul tavolo al quale è seduto, alza la voce fino a gridare le proprie parole e poi la abbassa in un sussurro, senza cambiare espressione del volto. La sentenza coglie di sorpresa primo tra tutti l’imputato, e fa credere per una volta al lieto fine, punteggiato dalle note di un pianoforte e dalla voce di un soprano.
Marco Cacciola si confronta con il mito ingombrante di Amleto in “Io sono. Solo. Amleto”, visto il 7 luglio, nell’ultima giornata del festival Orizzonti Verticali. La scena è bianca, accecante, e mentre il pubblico entra in sala l’attore vestito di nero si muove sul quadrato e brandisce una lunga asta alla quale è fissato un microfono, rubando rumori e parole agli spettatori che si accomodano a sedere. Due bauli su ruote, un manichino da disegno, un tavolo con sopra un computer e una boccia di vetro, di quelle per i pesci, sono gli oggetti di scena. Dal baule esce la terra che sporca la scena, le gambe e le braccia di Cacciola, il suo viso, mentre l’attore demiurgo diventa Amleto, ma anche Ofelia, con un abito bagnato che gocciola lacrime e sangue, poi Polonio, e poi Cesare tradito da Bruto, in un caleidoscopio di riflessioni e di riflessi, di rimandi avanti e indietro nei secoli, fino a oggi.
Si parte dal testo shakespeariano per attraversare i dubbi che fondano il nostro tempo: dal rapporto tra padri e figli alla relazione tra leader e società, dalle dinamiche di potere, sia nella dimensione pubblica che in quella privata, alla ricerca di una giustizia che si specchia nella vendetta. Il mito di Amleto incarna perfettamente il travaglio della crisi di conoscenza contemporanea. Siamo noi a essere Amleto: sopraffatti dal Pensiero, impossibilitati all’Azione ci ricorda Cacciola, potente e originale che fruga nei sottotesti scespiriani, li frulla e li sputa fuori, vestito in abiti muliebri oppure in mutande a bere birra, a più velocità e in pausa. Mentre il Padre nostro diventa Padre mio. “Tu mi hai insegnato il linguaggio e l’unico beneficio che ho rimediato è che ora so maledire”.