Sindrome di Sjogren, sì alla fisioterapia di iniziativa: a Salerno un confronto tra gli specialisti per la quinta Giornata Mondiale dedicata alla malattia
Secchezza di occhi e mucose, astenia, dolore osteoarticolare, fibromialgia, alterazioni delle funzioni cognitive: sono solo alcuni dei sintomi presenti nelle persone affette dalla sindrome di Sjogrencon conseguente disabilità e qualità di vita notevolmente ridotta, cui si associano generalmente forme di depressione e ansia. La sindrome di Sjogren è una patologia infiammatoria cronica autoimmune dal difficile inquadramento e trattamento. Per gestire al meglio la malattia è necessario un approccio integrato multimodale e multidimensionale da parte dei numerosi specialisti chiamati in causa, dall’oculista al neurologo, che purtroppo, però, operano spesso con un approccio settario e per compartimenti stagni.
Di tale equipe fa parte anche il fisioterapista. Il suo intervento nella gestione integrata del paziente è spiegato dalla presidente di AIFI Campania, Mariaconsiglia Calabrese, presente in rappresentanza dell’AIFI (Associazione Italiana Fisioterapisti) al confronto organizzato a Salerno, il 27 luglio scorso, dall’associazione ANIMaSS Onlus, per la quinta Giornata Mondiale della Sindrome di Sjogren. “Quando le manifestazioni extraghiandolari sono manifeste è fondamentale che l’intervento riabilitativo sia tempestivo e avvenga all’interno di un percorso integrato – spiega Calabrese – perché i pazienti non possono essere rimbalzati da uno specialista all’altro, ma hanno bisogno di una valutazione multidimensionale che passi attraverso un ragionamento clinico e diagnostico condiviso tra i vari operatori”. In altre parole, “una presa in carico globale che tenga conto del bisogno riabilitativo della persona”. E il compito del fisioterapista è educazionale e riabilitativo. “In un’ottica sistemica l’approccio fisioterapico ideale è quello di tipo neurocognitivo. Insegniamo al paziente strategie di gestione del dolore durante le fasi di acuzie della malattia, così da non perdere mai il rapporto con il proprio corpo e saper programmare il comportamento motorio in maniera coerente rispetto alle informazioni tattili, pressorie cinestetiche raccolte ed elaborate. Certo, è necessario prendere in carico il paziente quando non si è ancora manifestata la disabilità ostearticolare, e non aspettare e intervenire con la malattia in fase avanzata”.
Il problema è che per la Sjogren, non ancora riconosciuta come malattia rara, non ci sono percorsi diagnostico-terapeutici che “dovrebbero prevedere già l’intervento della riabilitazione, nello specifico effettuata da un fisioterapista”. E, sottolinea Calabrese, anche in qualità di presidente SIFIR, “non avendo a disposizione fondi da elargire in ricerca, non ci sono neanche studi controllati e randomizzati che dimostrano l’efficacia della riabilitazione con questo approccio rispetto ad altri”.
In questo senso, dall’appuntamento di Salerno è emerso l’impegno ad avviare un percorso che raggiunga l’obiettivo dell’ingresso della sindrome di Sjogren nell’elenco delle malattie rare. “I rappresentanti di settore di quattro regioni – Veneto, Marche, Lazio e Campania – lavoreranno per definire i numeri precisi dei pazienti affetti dalla sindrome, di concerto con i locali assessorati alla Sanità, per poi presentare richiesta con dati chiari e certificati”.
Intanto, “la presa in carico deve essere interdisciplinare e deve mirare alla trans-disciplinarietà”. Altrimenti, spiega Calabrese, “il paziente cronico si sente ‘frammentato’ nel ricorrere da uno specialista all’altro, senza un filo conduttore”. L’ideale sarebbe poter contare, invece, su un ‘laboratorio integrato’, al cui interno agiscono figure sanitarie che “lavorano insieme, conoscono il problema e comunicano tra di loro”, anche in ottica di prevenzione. Non è più possibile, sostiene infine Calabrese, considerare oggi la riabilitazione, e quindi la fisioterapia, come mera prevenzione ‘terziaria’, ma è indispensabile intervenire nel processo di cura. Un modello che anche in fisioterapia è possibile definire “di iniziativa: ovvero che vada incontro al paziente senza aspettare che si manifesti un bisogno con frustrazione o che si presentino condizioni di disabilità”, con ripercussioni sulla qualità di vita come, ad esempio, l’abbandono del posto di lavoro.