Sclerosi: dalfampridina riduce deterioramento cognitivo


Dalfampridina aiuta i pazienti con sclerosi multipla nella velocità di elaborazione delle informazioni, funzione chiave per il deterioramento cognitivo in questa patologia

Dalfampridina aiuta i pazienti con sclerosi multipla nella velocità di elaborazione delle informazioni, funzione chiave per il deterioramento cognitivo in questa patologia

Un importante lavoro italiano, pubblicato su “Neurology”, evidenzia nei pazienti con sclerosi multipla (SM) trattati con dalfampridina un beneficio nella velocità di elaborazione delle informazioni (IPS), funzione chiave per il deterioramento cognitivo (Coglm) in questa patologia. Nessun altro farmaco aveva fino ad oggi mostrato un’efficacia sul deficit cognitivo nella SM.

«L’efficacia degli interventi farmacologici per il Coglm nella SM non è chiara. È probabile che diversi trattamenti modificanti la malattia (DMT) giovino alla cognizione, mentre il suo trattamento sintomatico è insoddisfacente» premettono gli autori, guidati da Laura De Giglio in un team coordinato da Carlo Pozzilli, direttore del Centro sclerosi multipla dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma e professore di Neurologia Clinica alla Sapienza Università di Roma.

Le aminopiridine – ricordano – sono agenti bloccanti il canale del potassio (K+) ad ampio spettro, con la capacità di migliorare la conduzione attraverso gli internodi demielinizzati (di Ranvier) negli assoni del sistema nervoso centrale (SNC).

«Nel 2009, uno studio randomizzato controllato ha dimostrato che la dalfampridina orale a lento rilascio era più efficace del placebo nel migliorare la velocità del cammino misurata mediante il Timed 25-Foot Walk Test (25FWT)» aggiungono i ricercatori.

«Sia studi in aperto che studi controllati randomizzati hanno testato gli effetti della dalfampridina sul Coglm nella SM, riportando risultati contraddittori» sottolineano De Giglio e colleghi. «Tuttavia, le performance neuropsicologiche non erano gli endpoint primari negli studi controllati randomizzati e i pazienti non sono stati selezionati in base alla presenza di Coglm».

In questo studio, invece, gli autori presentano i risultati da un proprio trial randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo per valutare gli effetti della dalfampridina sulla funzione cognitiva in pazienti con SM selezionati per il fatto di avere un deficit nell’IPS.

Endpoint primario: miglioramento del punteggio del Symbol Digit Modality Test
Gli autori nello studio hanno incluso pazienti con un punteggio nel Symbol Digit Modality Test (SDMT) sotto il decimo percentile del valore di riferimento. L’SDMT è un test rapido neuropsicologico per la valutazione del deterioramento cognitivo che è emerso recentemente come una possibile misura di outcome per trial sul Coglm nella SM.

«Il test» spiegano gli autori «consiste nella presentazione di una serie di nove simboli, ciascuno dei quali è abbinato a una sola cifra, etichettata da 1 a 9, in una chiave nella parte superiore di un foglio. Il resto della pagina ha una sequenza pseudocasuale di simboli e il partecipante deve rispondere con la cifra associata quanto più rapidamente possibile. Il punteggio è dato dal numero di risposte corrette in 90 secondi».

I pazienti sono stati randomizzati in un rapporto 2: 1 a ricevere dalfampridina a lento rilascio (10 mg bis/die) o placebo due volte al giorno per 12 settimane consecutive. I partecipanti sono stati sottoposti a una valutazione neuropsicologica completa allo screening (T0), alla fine del trattamento (T1) e dopo un follow-up di 4 settimane (T2). L’endpoint primario era il miglioramento di SDMT.

Superiorità rispetto al placebo al termine del trattamento
Su 208 pazienti sottoposti a screening, 120 sono stati randomizzati a ricevere dalfampridina (n = 80) o placebo (n = 40). A T1, il gruppo dalfampridina ha presentato un aumento dei punteggi SDMT rispetto al gruppo placebo (variazione media 9,9 [intervallo di confidenza 95% (CI) 8,5-11,4] vs 5,2 [IC 95% 2,8-7,6], p = 0,0018; dimensione dell’effetto = 0,60 per punteggio grezzo. Si è registrato un miglioramento anche dello z score dell’SDMT con un cambiamento medio dal basale di 0,8 ([IC 95% 0,6-1] vs 0,3 [IC 95% 0,0-0,5], p = 0,0013; d = 0,61).

Il miglioramento non è stato sostenuto al follow-up a 4 settimane (T2). Anche la percentuale di pazienti con un miglioramento di almeno 4 punti nel punteggio grezzo SDMT e un miglioramento di almeno il 20% dell’SDMT era più elevata nel gruppo trattato con dalfampridina rispetto al placebo (86,1% vs 60,3% [p = 0,0029] e 75,9% vs 44,5% [p = 0,0012]).

Effetti benefici anche sugli score del PASAT e del MFIS
Un effetto benefico della dalfampridina sono stati osservati in un endpoint secondario quale il Paced Auditory Serial Addition Test (PASAT) – test di valutazione dell’attenzione divisa uditivo-verbale; nello svolgimento del compito sono anche coinvolte l’attenzione selettiva e sostenuta, la velocità di processazione e la memoria esecutiva.

Da citare anche la valutazione della fatigue cognitiva con l’MFIS (Modified Fatigue Impact Scale) che ha dimostrato uno specifico effetto del farmaco su questo sintomo. Il miglioramento del punteggio MFIS totale è stato di -7,84 (IC 95% da -11,7 a -3,9) nel gruppo dalfampridina rispetto a -0,2 (IC 95% da -4,6 a 4,9) nel gruppo placebo (p = 0,0085, d = −0,47). Nella sottoscala cognitiva, è stato trovato un miglioramento medio di 4,6 (IC 95% da -6,5 a -2,8) nel gruppo dalfampridina rispetto a 0,2 (IC 95% da -2,1 a 2,5) nel gruppo placebo (p = 0,0009, d = – 0,60).

Le conclusioni degli autori
«Il nostro studio suggerisce l’efficacia della dalfampridina nel miglioramento della IPS e della memoria esecutiva nei pazienti con SM con compromissione della IPS» osservano Pozzilli e collaboratori. «Fino a poco tempo fa, nessun farmaco era stato dimostrato efficace per il trattamento sintomatico di CogIm nella SM; pertanto i nostri risultati possono essere considerati rilevanti nella cura dei pazienti con questo sintomo invalidante».

«L’analisi dell’outcome primario del trial ha mostrato un maggiore miglioramento delle prestazioni cognitive nei pazienti trattati con dalfampridina rispetto al gruppo placebo; abbiamo anche scoperto che la dimensione dell’effetto del trattamento era media, suggerendo un e effetto pratico moderato del farmaco» proseguono.

Il miglioramento della funzione cognitiva non era presente dopo un mese di interruzione del farmaco. «Ciò» spiegano gli autori «è in linea con il meccanismo d’azione proposto – il miglioramento della conduzione nei percorsi demielinizzati attraverso il blocco dei canali di potassio dipendenti dalla tensione – che rende gli effetti della dalfampridina rapidi e reversibili». In conclusione, «la dalfampridina potrebbe essere considerata un’opzione terapeutica efficace per la compromissione della IPS nella SM».

Un studio di esempio per gli altri ricercatori, secondo l’editoriale di commento
In un editoriale di commento, James F. Sumowski e Nils Muhlert, entrambi dell’Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York, sottolineano l’importanza clinica del risultato dello studio.

Inoltre, evidenziano come il trial randomizzato controllato di De Giglio et al. non presenti le limitazioni degli studi precedenti che avevano portato a risultati contrastanti; può quindi rappresentare un modello per altri ricercatori per disegnare trial in grado di fornire prove di alto livello per migliorare lo studio del deterioramento cognitivo.

«Ciò è importante» sottolineano, anche «perché la letteratura sulla riabilitazione cognitiva farmacologica e comportamentale per le persone con SM ha fornito solo prove di basso livello per efficacia, forse perché il settore della riabilitazione cognitiva è carente di un corpo normativo che richieda prove di alta qualità per l’approvazione del trattamento».

Per Sumowski e Muhlert, infine, De Giglio et al. forniscono buone prove nell’indicare che gli effetti positivi della dalfampridina possono estendersi dalla velocità di cammino alla velocità di elaborazione, ma nessuno dei due meccanismi è ben compreso.

Per questo, sostengono, «sono necessarie in futuro ricerche mirate a spiegare meglio i meccanismi alla base degli effetti del trattamento, come i cambiamenti nell’integrità microstrutturale all’interno di tratti rilevanti usando tecniche di risonanza magnetica di diffusione».