Uso di natalizumab in corso di gravidanza: dati rassicuranti da uno studio italiano presentato all’ECTRIMS 2019 di Stoccolma
All’ECTRIMS 2019 di Stoccolma sono stati presentati nuovi dati di uno studio osservazionale italiano sull’uso di natalizumab in donne con sclerosi multipla (SM) in gravidanza che hanno dimostrato come l’uso continuato del farmaco sia associato a un minore rischio di recidive sia in corso di gestazione sia nel post-partum.
In termini di possibili effetti sui bambini, i risultati hanno mostrato che l’uso continuato di natalizumab nella gravidanza in fase avanzata sia associato a un aumentato rischio di anemia. Si è anche rilevata una maggiore frequenza di difetti alla nascita nei bambini nati da donne che continuavano ad assumere il farmaco rispetto a quelli che lo sospendevano prima di rimanere incinte, ma la maggior parte di queste andava incontro a un parto gemellare.
Peraltro, i ricercatori hanno affermato che dovevano essere presi in considerazione i fattori di confondimento e che la dimensione del campione dello studio era troppo piccola per stimare l’effetto del farmaco sul rischio di difetti alla nascita.
Nella sua presentazione, Doriana Landi, dell’Università di Roma Tor Vergata, ha concluso: «Abbiamo osservato che il prolungamento del trattamento con natalizumab in gravidanza protegge dalle recidive della SM in modo tempo-dipendente dal tempo».
«È auspicabile riprendere le infusioni entro 12 settimane dall’ultima del pre-partum per ridurre al minimo il rischio di rebound della malattia» ha aggiunto. Inoltre, «sono necessari campioni di dimensioni maggiori per stimare l’incidenza delle complicanze fetali nelle gravidanze esposte e fornire dati conclusivi per la consulenza alla paziente».
Maria Pia Amato, dell’Università di Firenze, coautrice dello studio e vicepresidente di ECTRIMS, ha spiegato che le donne che assumono farmaci altamente attivi come natalizumab e interrompono il trattamento prima della gravidanza possono avere una riattivazione grave della malattia, «il che è ovviamente una situazione preoccupante durante la gravidanza».
«Abbiamo scoperto in un nostro precedente studio che quante avevano interrotto natalizumab dopo il concepimento (al momento del primo test di gravidanza positivo) erano state meglio di quelle che avevano sospeso il trattamento prima di rimanere incinte» ha aggiunto Amato.
Donne suddivise in tre gruppi in base al tempo di esposizione al farmaco
Nel presente studio, i ricercatori hanno esaminato una coorte di 89 donne che hanno continuato la terapia con natalizumab per diverse durate in corso di gravidanza. Le donne sono state divise in tre gruppi: quelle che avevano interrotto il trattamento prima della gravidanza (gruppo 0; n = 31), coloro che avevano sospeso il farmaco nel primo trimestre di gravidanza (gruppo 1; n = 30) e quelle che avevano continuato a prendere natalizumab nel secondo e terzo trimestre (gruppo 2; n = 28).
Nel gruppo 0, natalizumab è stato sospeso (tempi espressi in mediane: m) 70 giorni m prima dell’ultimo periodo mestruale. Il farmaco è stato continuato per 21 giorni m dopo l’ultimo periodo mestruale nel gruppo 1 e 197 giorni m nel gruppo 2.
Le donne del gruppo 2 hanno ricevuto cinque infusioni m di natalizumab durante la gravidanza, con l’ultima dose somministrata 81 giorni m prima del parto. La maggior parte delle donne nel gruppo 2 ha continuato a prendere il farmaco fino alla 28a settimana di gestazione. Per le donne che hanno ripreso natalizumab dopo il parto, l’intervallo mediano tra l’ultima dose pre-partum e la prima dose post-partum è stato di 411 giorni nel gruppo 0, 288 giorni nel gruppo 1 e 103 giorni nel gruppo 2.
Minori recidive nella madre quanto maggiore è la prosecuzione del trattamento
Il tasso di ricaduta annuale durante la gravidanza era 1,06 nel gruppo 0; 0,49 nel gruppo 1 e 0,09 nel gruppo 2. Il tasso di recidiva annualizzato post-partum era 0,39 nel gruppo 0, 0,23 nel gruppo 1 e 0,10 nel gruppo 2. Per quanto riguarda i bambini, non c’era differenza in termini di età gestazionale media , peso alla nascita e lunghezza tra i 3 gruppi. Anemia è stata rilevata in cinque neonati nel gruppo 2, sebbene tre fossero prematuri e un’interazione con la prematurità non possa essere esclusa, ha riferito Landi.
Si sono verificate malformazioni in un neonato (difetto minore) nel gruppo 0, in 4 neonati nel gruppo 1 (1 difetto maggiore e 4 difetti minori) e in 4 neonati nel gruppo 2 (4 difetti maggiori e 2 minori). «Ma nel gruppo 2 la maggior parte dei difetti si è verificata in un gemello, quindi questo potrebbe non essere applicabile alla popolazione più ampia» ha specificato Landi.
«Maggiore è l’esposizione della madre alla terapia con natalizumab, migliore è il suo esito rispetto alla SM» ha commentato Amato. «Ciò ha comportato un minor numero di ricadute durante la gravidanza e anche durante il periodo post-partum, specialmente se il farmaco è stato ripreso entro 12 settimane che è la sua durata d’azione».
Bilanciamento tra rischio di ricadute nella gestante e difetti nel bambino
«Occorre porre attenzione all’equilibrio tra rischio per la madre e rischi per il bambino. Mentre sembra che natalizumab sia ragionevolmente sicuro per il bambino, abbiamo visto alcuni casi di anemia nei bambini nati da donne che hanno continuato a ricevere il farmaco più tardivamente in gravidanza» ha osservato Amato. «Riteniamo che la strategia ottimale per ridurre il rischio per la madre di ricadute della SM e disabilità associata alle recidive sia quella di continuare la somministrazione del farmaco fino a forse 30 settimane».
Amato ha sottolineato che si trattava di uno studio osservazionale, con ogni paziente che prendeva la propria decisione in collaborazione con il suo medico circa il fatto di interrompere o continuare il trattamento durante la gravidanza, per quanto tempo continuarlo e se prolungare l’intervallo di somministrazione. Di solito natalizumab viene somministrato una volta ogni 4 settimane. In alcune donne l’intervallo di somministrazione è stato esteso ogni 6 o 7 settimane.
«Il mio consiglio è quello di continuare il trattamento, poiché queste sono per definizione pazienti altamente attive con un elevato rischio di ricaduta se smettono di assumere il farmaco. Raccomanderei di continuare almeno fino al termine del secondo trimestre di gravidanza, dato che nel terzo si possono avere alcune anomalie ematologiche» ha concluso Amato.