Cellule CAR-T per contrastare la fibrosi cardiaca: i risultati degli esperimenti preclinici sul trattamento finora sono stati positivi
Le CAR-T al lavoro per curare il cuore malato. I super-linfociti T potrebbero forse costituire l’arma di cui i medici avevano bisogno per sciogliere la fibrosi cardiaca e restituire tono alle fibre muscolari del cuore le quali, allo stato attuale delle conoscenze, quando vengono colpite da questo processo di danneggiamento si danneggiano in maniera irreversibile. Quando si parla di malattie dell’apparato cardiovascolare il livello di attenzione sale immediatamente perché patologie come infarto, ischemia o scompenso cardiaco sono considerate tra le più pericolose e diffuse a livello mondiale.
E nel mese di settembre, in cui cade la Giornata Mondiale per il Cuore (World Heart Day), è stato pubblicato sulla rivista Nature un interessante studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania che ha usato i linfociti T ‘potenziati’ per individuare e distruggere i fibroblasti cardiaci responsabili della fibrosi. Una condizione che conduce all’irrigidimento dei tessuti del cuore, compromettendone in maniera grave il funzionamento e causando così una serie di importanti patologie cardiovascolari.
In questi ultimi anni, le CAR-T stanno suscitando grande interesse visto che questa straordinaria strategia terapeutica ha mandato avanti le lancette del progresso nel trattamento di leucemie e linfomi. È naturale quindi che un potenziale uso delle CAR-T per contrastare le patologie cardiovascolari sia destinato a scuotere le fondamenta della medicina. In primis perché gli effetti delle CAR-T hanno il sapore del definitivo che i pazienti cercano sempre in una nuova terapia. E, in secondo luogo, perché se si riuscisse a ridurre l’impatto sulla salute globale delle patologie cardiovascolari anche l’economia sanitaria cambierebbe faccia.
L’idea del prof. Jonathan Epstein e dei suoi collaboratori è stata quella di scatenare le CAR-T contro le cellule che producono il deposito di matrice extracellulare responsabile della fibrosi cardiaca. Un’intuizione brillante sulla carta non solo per i fini per cui è stata concepita ma anche perché sdoganerebbe l’uso delle CAR-T facendole uscire dal settore oncologico dove hanno ottenuto risultati di ampia portata contro alcuni tipi di leucemie e linfomi.
Nell’articolo pubblicato su Nature, i ricercatori hanno presentano i risultati dello studio condotto su un modello murino che riproduce la condizione originaria della fibrosi cardiaca. La prima parte dello studio è basata sull’induzione della fibrosi infondendo un composto a base di angiotensina II e fenilefrina (AngII/PE) nei topi e, successivamente, sul far esprimere alla superficie dei fibrobalsti l’antigene OVA, non naturalmente presente, allo scopo di capire se i linfociti T opportunamente modificati fossero in grado di riconoscerlo e quindi di aggredire le cellule che lo esprimevano. I ricercatori hanno osservato l’efficacia d’azione dei linfociti T ingegnerizzati e, a questo punto, hanno avviato la fase due: da uno studio genetico eseguito su centinaia di campioni provenienti da pazienti con (e senza) fibrosi cardiaca sono risaliti alla proteina FAP (Fibroblast Activation Protein), espressa sulla superficie dei fibrobalsti cardiaci. Si tratta di un antigene bersaglio specifico, non espresso dalle cellule cardiache sane ma da quelle patologiche. I ricercatori hanno dunque alzato l’asticella per capire se le cellule CAR-T fossero in grado di vedere e colpire un obiettivo specifico.
Risultato? A 4 settimane dall’infusione delle cellule CAR-T programmate per colpire i fibroblasti che esprimevano la proteina FAP, è stata osservata una marcata riduzione della fibrosi cardiaca nei topi trattati rispetto ai topi di controllo. E, oltre, a ciò i ricercatori hanno osservato un recupero della funzione cardiaca sistolica e diastolica. Un successo insperato a cui si accompagna un profilo di sicurezza buono.
Ovviamente, è una tematica ancora tutta da approfondire. Questo, infatti, può essere considerato lo “studio 0”, il primo esempio di un approccio che potrebbe funzionare anche sull’uomo ma che necessita di ulteriori passaggi di verifica e di controllo. Se confermato, potrebbe costituire una pietra miliare per il cammino delle CAR-T che dimostrerebbero così il loro potenziale anche fuori casa, non solo sul noto e ben collaudato terreno di gioco dell’oncologia.