La recensione allo spettacolo “Arlecchino e l’anello” del teatro Goldoni di Venezia, messo in scena da Marco Zoppello a partire da un canovaccio goldoniano
Costruire uno spettacolo di Arlecchino a partire da un canovaccio inedito di Carlo Goldoni. L’impresa non era facile, ma Marco Zoppello non si è fatto impensierire. Ha tradotto lui stesso dal francese gli stringati testi goldoniani (perché i canovacci erano due) e ne ha curato adattamento e regia. Il risultato è “Le disavventure di Arlecchino” declinato in due allestimenti (“Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato” e “Arlecchino e l’anello magico”) che si sono alternati per tutta l’estate al teatro Goldoni di Venezia. Oltre settanta repliche fino al 18 ottobre scorso, con la produzione del Teatro Stabile del Veneto e la compagnia dei giovani della stessa istituzione, dodici attori divisi in due gruppi di sei, uno per ciascun titolo. Uno spettacolo pensato per i turisti (anche grazie ai sovratitoli in francese e inglese) ma anche per gli appassionati della commedia dell’arte, che rivela tutto l’orgoglio umanistico e la competenza drammaturgica del giovane regista, che con la compagnia Stivalaccio Teatro da tempo si dedica anche a rivitalizzare un genere a rischio di mistificazione.
Per il ruolo del titolo Zoppello – che tra l’altro è un ottimo Arlecchino – ha scelto un protagonista di lungo corso come Stefano Rota che si è confrontato idealmente con quello storico, Carlo Bertinazzi, per il quale Goldoni aveva scritto i due canovacci mentre si trovava a Parigi, tornando per un po’ al genere della commedia all’improvviso tanto combattuta con la sua riforma. Poche paginette stringate, vergate in francese, con un sommario elenco di scene e personaggi, senza le battute e i movimenti.
L’Arlecchino raccontato nei due canovacci è un po’ diverso da quello originale, chiassoso e colorato. Siamo di fronte a un personaggio più maturo, che nel secondo episodio, “Arlecchino e l’anello magico”, alla cui rappresentazione ho assistito, è quasi crepuscolare, a tratti malinconico sotto la solita verniciatura buffonesca e cialtrona. Intanto è diventato un formaggiaio, una sorta di piccolo commerciante insomma, del resto il testo è stato scritto una ventina di anni dopo la Rivoluzione Francese, e la borghesia, grande e piccola, si va affermando. Arlecchino è divorato dalla gelosia per la moglie Argentina, e si vuole suicidare. Sarà provvidenziale l’intervento di un mago che gli mette al dito un anello magico grazie al quale dimenticherà il suo passato. Dimenticherà proprio tutto, anche il valore del denaro e il suo utilizzo, e dopo varie peripezie si innamorerà di nuovo della propria moglie, Argentina, senza riconoscerla.
Sono scambi di persona quindi, fraintendimenti, equivoci, ma come detto c’è anche una patina più meditativa, resa al meglio da Stefano Rota, che fornisce al personaggio tante sfaccettature inaspettate oltre a quelle cadenzate su frizzi e caricature. Con lui degni di citazione tutti gli interpreti. Il signor gendarme di Davide Falbo, maldestro e insieme coraggioso, l’Argentina di Eleonora Marchiori, precisa nella recitazione e versata anche nel canto, l’ostessa della locanda recitata da Lorenza Lombardi, fisica e vivace, e ancora l’Amelia De Bisognosi di Meredith Airò Farulla con il suo opportunismo quasi caricaturale, il Celio reso da Marlon Zighi Orbi come un damerino dalle armi spuntate, e il servitore Trappola di Pierdomenico Simone, guaglione napoletano che la sa lunga, favella sciolta e ritmi d’acrobata.
Di grande vividità espressiva le maschere di Roberto Maria Macchi, il cui Arlecchino ha dei tratti cagneschi, e grande cura nei costumi realizzati da Lauretta Salvagnin, un po’ spenti nei toni e consunti nelle forme, come a ricordo di uno splendore che fu. Vivide e al tempo essenziali le scene disegnate da Alberto Nonnato.
Il pubblico assiste alla rappresentazione seduto su una gradinata posta sul palcoscenico. Sullo sfondo, oltre il piccolo palco sul quale si muovono gli attori, l’imponenza barocca del teatro Goldoni, con i palchi leggermente illuminati. Lo spettatore ha contezza di tutto, tutto si svolge a vista. I tiri manovrati dagli attori, i fondali che calano e si alzano, il sipario rosso che scende. Anche i rumori – il cavallo che galoppa uno su tutti – sono realizzati dagli attori, come in un’autopsia della macchina teatrale, messa a nudo nei suoi meccanismi più primari, agìti dagli stessi protagonisti. Si respira un’aria da commedia dell’arte, di improvvisazione che però casuale non è, l’atmosfera di un teatro del quale si è ormai persa la memoria, il teatro del primo Novecento come l’ha raccontato con arguzia e un velo di nostalgia Sergio Tofano in un prezioso libretto, “Il teatro all’antica italiana”, piccolo e significativo affresco del mondo delle compagnie di giro, dei capocomici e degli attori.