Adrenoleucodistrofia: la terapia genica potrebbe diventare la prima scelta nel trattamento della forma cerebrale, ma è fondamentale individuare precocemente la malattia
All’interno delle iniziative organizzate per la Biotech Week di quest’anno, si è parlato, attraverso le terapie avanzate, anche di malattie rare. Il 23 settembre, a Napoli, si è svolto l’evento “L’empowerment e l’educazione dei pazienti nella transizione verso le innovazioni biotecnologiche” per parlare proprio di terapia genica, ma anche di diagnosi precoce, che è imprescindibile per avere buoni risultati. Più nello specifico, i temi trattati sono stati la talassemia e l’adrenoleucodistrofia che, pur essendo patologie molto diverse, hanno in comune il fatto che la terapia genica potrebbe diventare una soluzione terapeutica per entrambe. Solo quattro giorni più tardi, presso l’Istituto Besta di Milano, il convegno su adrenoleucodistrofia e adrenomieloneuropatia ha fatto il punto della situazione su clinica, diagnostica e terapia.
Spesso si parla di adrenoleucodistrofia in termini generici ed è importante sottolineare che, utilizzando questo termine, non ci si riferisce a una sola malattia. Si tratta di un insieme di manifestazioni cliniche, molto rare, legate a un difetto del gene ABCD1, che può causare un progressivo deterioramento neurologico e un’insufficienza corticosurrenalica. La forma più grave di questa malattia è l’adrenoleucodistrofia cerebrale legata all’X (X-CALD), che si manifesta nei primi anni di vita (3-12 anni) e induce disturbi neurologici progressivamente ingravescenti. Esiste poi la forma con sola insufficienza corticosurrenalica (malattia di Addison isolata) e quella dell’adulto, ovvero l’adrenomieloneuropatia (AMN), caratterizzata da paraparesi e neuropatia progressive. Inoltre, le donne portatrici della mutazione in ABCD1, in passato ritenute erroneamente asintomatiche, possono manifestare, in età adulta, una condizione simile alla AMN, in genere meno grave.
“Essendo una patologia complessa e caratterizzata da forme diverse, c’è una difficolta intrinseca nel fare una stima precisa dell’incidenza”, commenta Isabella Moroni, medico di Neuropsichiatra Infantile della U.O.C. Neuropsichiatria Infantile, Fondazione IRCCS Istituto Neurologico C. Besta. “Negli ultimi 20 anni, l’incidenza è stata descritta in varie pubblicazioni, con numeri relativamente variabili e con una media di 1 caso ogni 21mila persone. La mancanza di un registro strutturato dedicato è una delle cause dell’assenza di dati precisi: è vero che esiste il Registro Nazionale Malattie Rare, ma viene usato in modo disomogeneo nelle diverse Regioni. Inoltre, in caso di malattia di Addison non dovuta ad altre cause, non sempre i pediatri e gli endocrinologi considerano il sospetto di ALD, che può essere diagnosticata dosando i livelli anomali di acidi grassi a catena molto lunga in un semplice prelievo di sangue. È fondamentale che ci sia il sospetto diagnostico da parte dei medici, in modo da anticipare il più possibile la diagnosi, per prevenire la progressione della sintomatologia ove possibile con le poche risorse terapeutiche oggi a disposizione”.
Nel caso dell’adrenoleucodistrofia, dato che si possono manifestare sintomi estremamente variabili, che vanno da quelli neurologici a quelli legati a disfunzioni endocrine, l’inquadramento diagnostico è piuttosto complicato. Il coinvolgimento neurologico è subdolo in età pediatrica, perché non esiste un segno eclatante che permetta l’identificazione della malattia, tanto che il sospetto diagnostico viene avanzato di frequente a seguito dell’osservazione di un calo della performance scolastica del bambino. Spesso, anche nelle forme dell’adulto si presenta lo stesso problema: prima di arrivare alla diagnosi di adrenomieloneuropatia compaiono sintomi generici, quali rigidità o debolezza, che non consentono una diagnosi tempestiva.
“L’adrenoleucodistrofia non è una patologia statica o lineare, ci sono forme e sintomi diversi e per questo motivo sono fondamentali le valutazioni specialistiche”, prosegue la dottoressa Moroni. “La forma con insufficienza corticosurrenalica può manifestarsi in maniera acuta, con scompenso molto grave che può causare malessere, debolezza, vomito e compromissione generale, fino al coma, oppure con segni modesti come l’iperpigmentazione della pelle (cosiddetta bronzina) e la spossatezza eccessiva a seguito di banali malattie febbrili. Nella X-CALD, i sintomi includono deterioramento delle funzioni cognitive, modificazioni immotivate del comportamento e perdita di interesse per le attività sociali e di gioco: è difficile che questi primi segnali vengano visti come i sintomi di una patologia cerebrale. Successivamente, possono presentarsi disturbi motori e addirittura crisi epilettiche: a questo punto, la malattia è generalmente già arrivata ad uno stadio così avanzato – dal punto di vista del danno cerebrale, con alterazioni di tipo leucodistrofico alla risonanza magnetica – che non è più eleggibile all’unico trattamento oggi disponibile, cioè il trapianto di staminali midollari”.
La diagnosi precoce di X-CALD è praticamente impossibile, tranne nel caso in cui ci siano già stati casi di mutazione del gene ABCD1 in famiglia. Qualora identificati, vengono fatte le analisi genetiche dei familiari e dei nuovi nati, in modo da riconoscere i potenziali portatori per monitorali regolarmente e prevenire il rischio di evoluzione drammatica del deterioramento neurologico. Solo quando vengono identificati i segni precoci della malattia si può procedere con il trapianto di cellule staminali midollari, che al momento è l’unica terapia possibile per la forma cerebrale. Il tempismo è quindi fondamentale: il trapianto non può essere fatto in via preventiva ogni qualvolta si trovi la mutazione in ABCD1, perché la patologia si può manifestare in forme diverse anche nella stessa famiglia.
“Se un bambino arriva alla diagnosi con deficit neurologici e alterazioni marcate alla risonanza magnetica, anche impiegando il trapianto non si avrebbero miglioramenti, mentre la degenerazione dei tessuti cerebrali andrebbe comunque avanti. Il trapianto, pertanto, in queste situazioni costituisce un ulteriore rischio e non viene di conseguenza indicato”, afferma la dott.ssa Moroni. Il trapianto di cellule staminali midollari è il trapianto allogenico che si effettua da donatore compatibile, quindi implica la valutazione dei familiari ed eventualmente il ricorso a banche di donatori. Purtroppo, ci sono bambini per cui non si trova un donatore compatibile: è proprio per questi pazienti che sarebbe utile ricorrere a strategie terapeutiche diverse ed innovative, come la terapia genica, cioè un trapianto cellulare basato sull’impiego delle cellule del soggetto stesso modificate geneticamente. È ancora in fase sperimentale, ma i risultati sono buoni e paragonabili a quelli del trapianto da donatore, a fronte di minimizzare i rischi legati all’uso di cellule di un altro soggetto. “La terapia d’elezione già c’è ed è il trapianto standard, ma la terapia genica aumenta le possibilità di successo del trapianto nei casi in cui manchi un donatore compatibile. In futuro, potrebbe rappresentare la prima scelta anche per chi ha un donatore compatibile proprio perché riduce i rischi, come il rigetto, e non necessita dell’impiego di pesanti trattamenti immunosoppressivi pre-trapianto”, conclude la dottoressa.
Tornando alla diagnosi di adrenoleucodistrofia, se è difficile ottenerla, accettarla lo è ancora di più. “La diagnosi di X-CALD è un momento drammatico, scioccante e sconvolgente per le famiglie”, commenta Valentina Fasano, Presidente dell’Associazione Italiana Adrenoleucodistrofia Onlus (AIALD). “L’esperienza che abbiamo, come associazione, di fronte a questo momento, è quella di una difficoltà grandissima. Spesso c’è una reazione di totale rifiuto: alcune mamme non vogliono conoscere quale sarà l’evoluzione della malattia del bambino. C’è un percorso psicologico e di supporto da fare sia da parte delle famiglie che del medico che dà l’informazione. È sempre più importante che sia il medico del centro di riferimento ad affrontare quel momento, dato che conosce la patologia e può indirizzare i pazienti e i loro familiari a una rete che possa supportarli, e non lasciarli semplicemente in un ‘vuoto post-diagnosi’”.
Successivamente alla diagnosi, le visite di controllo rendono il percorso dei pazienti ancora più complesso: la loro ‘migrazione’ verso i centri di riferimento aggrava ulteriormente la situazione, dato che il peso economico è spesso insostenibile per queste famiglie, a causa dei numerosi viaggi. “Obiettivo fondamentale dell’associazione è creare informazione e consapevolezza circa l’adrenoleucodistrofia. È fondamentale perché vuol dire sentirsi meno soli, spaventati e spaesati”, prosegue Fasano. “Nell’assistenza alle famiglie, AIALD mette a disposizione anche uno sportello di supporto legale, coordinato dall’avvocato Maria Selvaggia Forza, il nostro vicepresidente, che, in forma gratuita aiuta pazienti e famiglie nelle richieste di assistenza sociosanitaria, nella procedura per il riconoscimento dell’invalidità e in tutto ciò che riguarda la tutela dei diritti delle persone affette dalla patologia. Facciamo anche informazione e formazione in ambito medico, affinché questa patologia venga sempre più conosciuta in maniera trasversale. L’idea è che tutte le difficoltà che si affrontano dipendono anche dal contesto circostante, che troppo spesso si dimostra chiuso e non accoglie la disabilità e la diversità. Contribuire a creare una più avvertita consapevolezza della complessità della malattia non è solo ‘affare’ del paziente, ma dell’intera collettività. Per una famiglia, convivere con una malattia così terribile ed altamente invalidante è al limite delle forze umane, e la diagnosi precoce è quello a cui tutti noi aspiriamo”.
Anticipare il più possibile la diagnosi resta quindi il punto cruciale nell’adrenoleucodistrofia, e l’unico elemento che potrebbe favorirla è lo screening neonatale, in modo da identificare fin da subito la mutazione e monitorare i piccoli pazienti fino al manifestarsi dei primi sintomi. “Quando è partita la nostra associazione, nel 2005, di malattie rare non parlava quasi nessuno”, commenta Manuela Vaccarotto, Vicepresidente dell’Associazione Italiana Sostegno Malattie Metaboliche Ereditarie (AISMME). “In Italia c’era una disparità inaccettabile per quanto riguarda lo screening neonatale nelle varie regioni. Questo ci ha fatto lavorare su più fronti e quando, nel 2013, è stato presentato il disegno di legge sullo screening neonatale (poi approvato con la Legge 167/2016), per noi è stato un sogno. La possibilità di ampliare il pannello è stata sottolineata dall’approvazione dell’emendamento Volpi nel 2018. In futuro, i laboratori saranno destinati a essere sempre più importanti e attrezzati con nuove strumentazioni, perché per ampliare le possibilità di screening neonatale, si cercherà di integrare la metodica standard di analisi (la spettrometria di massa) con altri metodi. Le apparecchiature e l’innovazione corrono più veloci della burocrazia e ci mostrano le nuove possibilità diagnostiche. Lo screening neonatale esteso ha aperto la porta a tutto questo e adesso ci aspettiamo che le istituzioni si aprano all’innovazione: puntiamo ad un sostanziale cambio di cultura verso lo screening neonatale applicato a molte patologie”.