Osteoporosi: nuove conferme per romosozumab


Osteoporosi: il trattamento con romosozumab non mostra differenze significative di efficacia e di sicurezza in relazione allo stadio di comorbilità renale

Osteoporosi: il trattamento con romosozumab non mostra differenze significative di efficacia e di sicurezza in relazione allo stadio di comorbilità renale

Il trattamento dell’osteoporosi con romosozumab, anticorpo monoclonale anti-sclerostina, non mostra differenze significative di efficacia e di sicurezza in relazione allo stadio di comorbilità renale.

Lo dimostrano i risultati di un’analisi post-hoc di studi registrativi, presentata nel corso del congresso annuale dell’ASBMR, tenutosi il mese scorso ad Orlando, in Florida (Usa), che sembrano suggerire un ampliamento della platea di pazienti con osteoporosi (OP) che potrebbero trarre beneficio da questo trattamento.

Informazioni su romosozumab
Romosozumab è un nuovo farmaco anabolico che agisce con un duplice meccanismo: aumenta la formazione ossea e, in misura minore, riduce il riassorbimento osseo (o la perdita ossea). È stato progettato per funzionare inibendo l’attività della sclerostina, che si traduce in un aumento della formazione ossea e, in misura minore, in una diminuzione del riassorbimento osseo. Il programma di sviluppo di romosozumab comprende 19 studi clinici che hanno arruolato circa 14.000 pazienti.

Romozumab è stato studiato per il suo potenziale di riduzione del rischio di fratture in un ampio programma globale di Fase 3 che comprendeva due grandi studi di frattura che confrontavano il romosozumab con placebo o comparatore attivo in oltre 11mila donne in postmenopausa con osteoporosi. Amgen e Ucb stanno sviluppando insieme il farmaco.

Recentemente, a seguito di una procedura di riesame, il Comitato per i medicinali per uso umano (Chmp) dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), ha raccomandato l’autorizzazione all’immissione in commercio di romosozumab per il trattamento dell’osteoporosi grave in donne in postmenopausa ad alto rischio di frattura e senza storia di infarto del miocardio o ictus.

La raccomandazione del Chmp sarà ora riesaminata dalla Commissione Europea, che ha l’autorità di approvare i medicinali per l’uso in tutta l’Unione Europea. Una decisione della Commissione europea è prevista entro la fine di questo anno.

Lo studio: obiettivo e disegno
Per quanto la nefropatia cronica rappresenti un’evenienza molto comune nelle donne in postmenopausa affette da OP, uno dei problemi principali che ci si trova ad affrontare con la terapia farmacologica attuale è che i BSF, spesso utilizzati come trattamento di prima linea, sono generalmente controindicati nelle pazienti con compromissione della funzione renale, soprattutto in quelle con valori di eGFR <35 ml/min.
A differenza dei BSF, invece, romosozumab non è escreto attraverso i reni e, pertanto, potrebbe configurarsi come opzione di trattamento alternativa potenzialmente utile.

Per valutare gli effetti del farmaco in pazienti con diversa compromissione della funzione renale, i ricercatori hanno condotto, pertanto, una analisi post-hoc dei dati del trial FRAME the Fracture Study in Postmenopausal Women With Osteoporosis), che ha incluso 7.180 donne in postmenopausa con T-score compresi tra -2,5 e -3,5 deviazioni standard a livello dell’anca in toto o del collo femorale.

Le partecipanti a questo trial erano state randomizzate al trattamento per 12 mesi con iniezioni mensili di romosozumab 210 mg o placebo.

Nell’analisi post-hoc presentata al congresso, le pazienti sono state classificate in base allo stadio di nefropatia cronica: funzione renale nella norma  (eGFR ≥ 90 ml/min; n = 848); lieve insufficienza renale (eGFR 60–89 ml/min, CKD stadio 2; n = 4939); insufficienza renale moderata (eGFR 30–59 ml/min, CKD stadio 3; n = 1360); insufficienza renale severa (eGFR 15–29 ml/min, CKD stadio 4; n = 18).

La maggior parte delle pazienti (88%) era affetta inizialmente da insufficienza renale lieve-moderata, mentre solo lo 0,3% era affetto da insufficienza renale severa.

Risultati ottenuti in base allo stadio di malattia renale
Considerando i risultati in toto, il miglioramento della densità minerale ossea nei pazienti trattati con romosozumab dopo 12 mesi è risultato significativamente più elevato a livello della colonna lombare, dell’anca in toto e del collo femorale rispetto al placebo.
Non sono state rilevate, invece, variazioni significative relativamente al miglioramento osservato per ciascuna delle misure densitometriche sulla base dello stadio di compromissione renale iniziale.

Nello specifico, l’incidenza di nuove fratture vertebrali è risultata sovrapponibile per tutti gli stadi di nefropatia cronica considerati nelle pazienti con romosozumab rispetto a quelle allocate nel gruppo placebo, considerando quelle con funzione renale nella norma (0,5% vs. 3%), CKD allo stadio 2 (0,4% vs. 1,5%) e CKD allo stadio 3 (0,6% vs. 2,1%).

Non solo, l’assenza di differenze statisticamente significative in pazienti con romosozumab con diversa compromissione renale è stata confermata anche in termini di safety (tasso eventi avversi, eventi avversi seri o incidenza di eventi avversi CV).

E’ stato documentato un caso di ipocalcemia in un paziente del gruppo romosozumab con CKD allo stadio 2 e, rispettivamente, 4 e 13 casi di riduzione lieve-moderata della calcemia in pazienti trattare con romosozumab e con placebo.

Da ultimo, quasi l’80% delle pazienti di ciascun gruppo non ha mostrato variazioni significative rispetto al basale della eGFR ad un anno, mentre quelle osservate sono risultate sovrapponibili tra i gruppi di trattamento in studio.

Le implicazioni dello studio
L’analisi post-hoc presentata al congresso ha dimostrato che romosozumab è sicuro ed efficace fino ad un valore di eGFR pari a 30 ml/min, considerato il limite inferiore della CKD di grado moderato.
Almeno al di sotto di questo livello, dunque, il farmaco è in grado di ridurre l’incidenza di fratture senza avere effetti negativi sulla funzione renale.