Alopecia areata: ad essere colpiti sono soprattutto i più giovani. Sidemast chiede riconoscimento di patologia cronica e agevolazioni fiscali sull’acquisto di parrucche e protesi
Capelli che cadono ma anche barba, sopracciglia e ciglia che si diradano e solo nel 40% delle persone ricrescono. Sono questi i sintomi dell’alopecia areata, una patologia autoimmune, che colpisce l’1-4% della popolazione italiana. Sebbene non sempre irreversibile, condiziona negativamente la qualità della vita con risvolti fisici e psicologici molto importanti. Tanto più se si considera che ad essere colpiti sono soprattutto i più giovani: il 60% ha meno di 30 anni.
Per dare supporto pratico a tutte persone che ad oggi “brancolano nel buio”, per la prima volta SIDeMaST, Società Italiana di Dermatologia, si è fatta portavoce scientifico dell’Associazione di pazienti alopeciaareata&friends. E ha chiesto, durante un’audizione alla Commissione Politiche per la Salute dell’Emilia Romagna, il riconoscimento dell’alopecia areata come patologia cronica e agevolazioni fiscali sull’acquisto di parrucche e protesi, i cui costi sono in alcuni casi proibitivi. Diritto che viene tutelato in alcune regioni italiane solo in caso di alopecia da chemioterapia. L’esito è stato positivo; l’Emilia Romagna è la prima regione italiana a sostenere i pazienti colpiti da perdita di capelli non per terapie oncologiche. Inoltre l’atto di indirizzo impegna l’esecutivo anche a richiedere al governo nazionale il riconoscimento dell’alopecia areata come malattia cronica e a sancire i livelli essenziali di assistenza.
“E’ una patologia causata da un errore del sistema immunitario, che può essere associata ad altre malattie autoimmuni – spiega Bianca Maria Piraccini, consigliere SIDeMaST e Professore Associato in Dermatologia presso il Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna -. Le nostre difese invece di proteggerci contro le infezioni si sbagliano, riconoscono capelli e peli come “nemici” e li fanno cadere. Nel 90% dei casi ad essere colpito è il cuoio capelluto a chiazze o nella totalità. Le altre aree pilifere, invece, possono essere interessate congiuntamente o isolatamente, con effetti funzionali in alcuni casi deleteri. Ad esempio nelle ciglia, l’alopecia areata induce una caduta che interessa sia la palpebra superiore che quella inferiore e provoca una forte sensazione di fastidio per il paziente. Gli occhi, infatti, senza ciglia sono più esposti e non ricevono alcuna protezione dalla luce, dalla polvere e dal vento”. Sull’esordio della patologia gioca un ruolo importante la predisposizione genetica su cui intervengono fattori ambientali.
“Se un genitore è affetto da alopecia areata, cresce del 6% la probabilità per i figli di sviluppare la malattia – continua la dermatologa –. L’alopecia areata non è una malattia indotta dallo stress, come spesso si tende a dire, minimizzandone la patogenesi autoimmune. Per curare l’alopecia areata non basta, perciò, intervenire attraverso un sostegno psicologico, certamente proficuo, ma bisogna intraprendere un percorso di cura farmacologico”. Sul fronte della terapia ad oggi non esistono trattamenti in grado di guarire dall’alopecia areata: i farmaci disponibili possono indurre la ricrescita dei capelli, ma non cambiano l’evoluzione a lungo termine della malattia.
“Come rappresentanti della Società Italiana di Dermatologia – chiarisce Calzavara-Pinton, Presidente SIDeMaST – è nostro dovere impegnarci attivamente nel campo della ricerca per trovare cure sempre più efficaci e ben tollerate. Ma non solo. Vogliamo porre all’attenzione di tutta la società quello che è un problema concreto e non adeguatamente riconosciuto. Se non è possibile nascondere i segni dell’alopecia, poiché la caduta di peli e capelli è sotto gli occhi di tutti, bisogna considerare che esistono cicatrici non altrettanto visibili ma non per questo meno dolorose, in grado di compromettere la quotidianità dei pazienti che ne sono affetti. Ci auguriamo che vengano adottate misure idonee per facilitarne la qualità di vita, con il pieno riconoscimento dei livelli essenziali di assistenza”.