Colangiocarcinoma: le mutazioni genetiche sono la “chiave di volta” per le future terapie. La tematica è stata al centro di un incontro tra esperti
Si chiamano tumori delle vie biliari e sono un gruppo di neoplasie del fegato che hanno in realtà origine a partire dai dotti biliari, i canali che trasportano la bile dal fegato all’intestino. Si distinguono in base alla loro sede d’insorgenza in colangiocarcinomi intraepatici, se si sviluppano all’interno del fegato; colangiocarcinomi perilari, all’ingresso dei dotti biliari nel fegato ed extraepatici se nascono dalle vie biliari extraepatiche. In totale sono circa 5.000 gli italiani che ogni anno ricevono una diagnosi di carcinoma delle vie biliari. In particolare il colangiorcarcinoma intraepatico (CCI) è il secondo tumore del fegato più frequente.
Il CCI rappresenta il 10-15% di tutti i tumori epatici e si manifesta in maniera più subdola e meno chiara con sintomi che vanno dalla perdita di peso, all’astenia e all’obesità. Per questo motivo si riscontrano tumori con notevoli dimensioni all’esordio. Inoltre nel 60% dei pazienti la diagnosi viene effettuata quando il tumore è in fase avanzata. Ma quanto si conoscono queste patologie? Quali sono le problematiche ancora aperte per i pazienti? E quali le strategie terapeutiche del futuro? Di questo si è parlato nel corso di un incontro stampa con gli esperti, dal titolo Colangiocarcinoma: da tumore raro a patologia trattabile, organizzato a Milano con il contributo non condizionato di Incyte.
“Negli ultimi anni stiamo osservando nella pratica clinica un incremento delle forme intraepatiche, pari a circa il 4% annuo, in alcuni paesi europei tra cui anche l’Italia”, afferma Giovanni Brandi, Presidente Gruppo Italiano Colangiocarcinoma (GICO). “Si tratta di un aumento reale non legato a miglioramenti della diagnostica che comincia ad interessare perfino un target pazienti diverso rispetto al passato, ovvero giovani a partire dai 30 anni. Inoltre previsioni molto realistiche ci dicono che tra 15 anni le neoplasie intraepatiche costituiranno la causa di circa la metà delle morti primitive per il fegato, come gli epatocarcinomi”.
Ma quali sono le ragioni di questo incremento? “L’aumento epidemiologico delle forme intraepatiche è sicuramente ascrivibile ad un peso diverso dei fattori di rischio ambientali cambiati negli anni. Alcuni studi realizzati dal nostro Gruppo in collaborazione con lo IARC (International Agency for Research on Cancer di Lione), dimostrano che l’amianto è associato in oltre la metà dei casi di colangiocarcinoma intraepatico con un rischio incrementale fino ad 8 volte”, aggiunge Brandi. Altri fattori di rischio sono rappresentati da altre patologie del fegato molto ben riconosciute, come la colangite sclerosante, la litiasi biliare intraepatica, le cisti del coledoco e alcune infestazioni biliari parassitarie (poco comuni alle nostre latitudini), l’epatite B e C e la cirrosi epatica. A questi si aggiungono l’obesità ed il consumo di alcol.
Quali, allora, le prospettive per il futuro? Un aspetto importante per il trattamento di questi pazienti è l’individuazione di eventuali mutazioni genetiche. Negli ultimi anni, infatti, la ricerca ha permesso di individuare alcune mutazioni del DNA alla base della proliferazione incontrollata delle cellule. “Oggi conosciamo le mutazioni geniche che guidano la crescita dei colangiocarcinomi. In particolare, circa la metà dei colangiocarcinomi intraepatici ha almeno una mutazione rilevante per la terapia in quanto costituiscono il target di farmaci a bersaglio molecolare”, afferma Davide Melisi, Professore Associato di Oncologia, Università di Verona. “Le mutazioni che sono indispensabili, ormai da ricercare alla diagnosi, sono quelle del recettore del Fibroblast Growth Factor, detto anche FGFR-2 e le mutazioni di un gene che codifica per una proteina coinvolta nel metabolismo che si chiama IDH-1”. In particolare, le traslocazioni del recettore FGFR-2 sono presenti in circa il 10-16% dei pazienti con colangiocarcinoma intraepatico (CCI), mentre le mutazioni di IDH-1 sono presenti in circa il 20% dei CCI.
“Abbiamo assistito in un lasso di tempo molto breve ad un vero e proprio cambiamento di paradigma nel trattamento dei pazienti affetti da questa neoplasia: da un quadro molto limitato di regimi solo chemioterapici si è passati a realizzare farmaci a bersaglio che si sono dimostrati utili nella terapia del colangiocarcinoma localmente avanzato e metastatico resistente alla chemioterapia. Stiamo inoltre testando questa classe di farmaci anche come trattamento di prima linea, ovvero come strategia subito dopo la diagnosi”, aggiunge Melisi.
“Gli incontri come quello di Milano sono molto importanti, in quanto permettono di accendere i fari su questa patologia rara ma in rapida espansione”, afferma Paolo Leonardi, Presidente Associazione Pazienti Italiani Colangiocarcinoma. “Ancora troppe persone che incorrono nel colangiocarcioma se ne accorgono tardi, quando la malattia è ormai in fase avanzata, pertanto è fondamentale fornire ai pazienti informazioni che possano aiutarli a orientarsi e, nel frattempo, sostenere la ricerca e gli studi scientifici nel campo della profilazione genetica”.