Fusione Fca-Psa, il pensiero di Cisal Metalmeccanici. Tra ottimismo e pessimismo il successo dipende dalle concrete scelte organizzative e industriali
Dopo l’annuncio della fusione tra Fca e Psa, ecco il punto di vista di Cisal Metalmeccanici sull’accordo che ha visto la nascita del quarto gruppo mondiale del mercato auto.
Le recenti esperienze di Fiat nell’acquisizione di Chrysler e di Psa in quella di Opel-Vauxhall raccontano una storia diversa e rappresentano il primo motivo di ottimismo per la riuscita dell’operazione, soprattutto se, come sembra, sarà guidata da Carlos Tavares, amministratore delegato di Psa, e dal suo top management.
Per stile ed efficacia ricordano la Fiat di Sergio Marchionne, che pure aveva provato a realizzare una alleanza stabile con Psa e più di recente con la Opel.
Vi sono buone ragioni dunque per ritenere che i manager delle due aziende sarebbero attrezzati per affrontare con successo la complessità organizzativa dell’operazione di integrazione. In più, Psa e Fca hanno già lavorato insieme nella progettazione e produzione di veicoli commerciali leggeri, con eccellenti risultati di prodotto e di mercato, nello stabilimento abruzzese della Sevel. L’impianto copre quasi per intero la produzione dei veicoli commerciali leggeri in Italia, con circa 300 mila veicoli all’anno. La fusione potrebbe dargli continuità produttiva dal momento che, nonostante gli ottimi risultati e la sua longevità (esiste dal 1978), Fca e Psa avevano annunciato la fine della joint venture.
Il secondo motivo di ottimismo risiede nella reale complementarietà tra le competenze delle due case. Fca ha competenze di ingegneria per soddisfare il mercato Usa, mentre Psa si è dimostrata più attrezzata a conquistare il mercato europeo. Fca gode di tradizione nelle auto del segmento A (in particolare con la Panda), laddove Psa non è mai riuscita ad avere una posizione di leadership. Sull’alto di gamma, Fca con Alfa Romeo e Maserati è sicuramente meglio posizionata. Psa ha mantenuto un forte presidio del segmento B (quello della Peugeot 208 e Opel Corsa), abbandonato da Fca con la fine della produzione della Grande Punto, e ha sviluppato per questo mercato una piattaforma già pronta per l’elettrificazione che contribuirà senz’altro a rendere più sostenibile, anche per Fca, la transizione verso nuovi propulsori.
Il terzo motivo di ottimismo è legato al fatto che in un mercato come quello europeo dai margini molto esigui, raggiungere una quota superiore al 25 per cento permetterà di realizzare ritorni accettabili sui nuovi investimenti necessari per rispettare le durissime norme antinquinamento vigenti in Europa e per affrontare la rivoluzione dei servizi e delle tecnologie che investe l’ecosistema della mobilità.
Tuttavia, sia Psa sia Fca sono deboli in India e in Cina, il mercato che invece ha permesso a Volkswagen di diventare l’azienda leader che è oggi. E per realizzare le “sinergie”, le due case potrebbero trovarsi ad affrontare un rilevante problema di razionalizzazione in Europa delle attività di progettazione, dell’utilizzo degli stabilimenti produttivi e della rete distributiva. Nell’ambito di Fca, Torino e Modena si erano ritagliate il ruolo di motore propulsivo per lo sviluppo dei segmenti A e B (le auto di piccola dimensione) e del lusso (Maserati e Alfa Romeo).
Se, come probabile, il nuovo gruppo deciderà di “razionalizzare” le attività ingegneristiche, è prevedibile un ridimensionamento o una chiusura delle attività di progettazione svolte in Italia a favore di quelle svolte in Francia. A farne le spese non saranno solo gli ingegneri torinesi di Fca, ma anche i fornitori italiani perché il 70-80 per cento della progettazione di Fca è svolta insieme alle aziende fornitrici che producono componenti e sistemi.
È vero che una quota di questa produzione viene esportata in Francia (e, quindi, anche verso il gruppo Psa), ma i rischi di un ulteriore ridimensionamento delle attività di ricerca e sviluppo e della filiera italiana nel suo complesso sono reali. Fca è poi l’unico produttore di massa in Italia, ma nel 2018 si è registrata una riduzione del 10 per cento dei volumi prodotti rispetto al 2017 (da 742 mila a 670 mila vetture).
In Francia, dove ci sono stabilimenti Renault, Psa e Toyota, la produzione è sostanzialmente stabile (1 milione e 748mila e 1 milione e 763mila vetture rispettivamente nei due anni). Il calo della produzione italiana, peraltro, non è stato omogeneo: nello stabilimento di Pomigliano è stato solo del 10 per cento, mentre a Mirafiori è stato del 40 per cento e a Cassino del 26 per cento. Nel 2019 la conferma del ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali – Cassino supererà a dicembre i 100 giorni di cassa integrazione dall’inizio dell’anno – e la scelta del contratto di solidarietà a Melfi mostrano la gravità della situazione e lasciano prevedere per la fine dell’anno un ulteriore calo complessivo della produzione Fca. Anche perché negli stabilimenti della Maserati di Grugliasco e Modena la situazione è analoga.
Con la fusione quali sono dunque le prospettive degli stabilimenti Fca in Italia? In teoria, Psa e Opel hanno una produzione installata in Europa adeguata a soddisfare la domanda. Dopo la fusione nel 2017 Opel ha pagato un prezzo alto in termini di riduzione dell’organico (fino al 15 per cento in alcuni casi) e Psa ha di fatto saturato la capacità produttiva. In Italia, il piano industriale 2014-2018, il primo dell’era Fca, ambiva a trasformare il paese nel luogo della produzione di vetture di segmento premium. Le difficoltà incontrate da questa strategia sono evidenziate dal fatto che gli stabilimenti di Pomigliano, dove si assembla un’auto del segmento.
A (la Fiat Panda), e quello di Melfi, che produce Suv di piccole dimensioni (Fiat 500X e Jeep Renegade) sono gli unici a funzionare con livelli di saturazione accettabili. Ma con la produzione dei modelli premium in crisi – per i costi complessivi dell’operazione e per l’evidente insuccesso dei prodotti Alfa Romeo – difficilmente le scelte del nuovo gruppo potranno essere in continuità con quelle di Fca. Un’Italia senza stabilimenti di assemblaggio sembra uno scenario altamente improbabile, tuttavia il raggiungimento della saturazione della capacità installata di circa 1,4 milioni di vetture anno e la riduzione a un livello fisiologico del ricorso agli ammortizzatori sociali sono una sfida ardua, che richiede di tornare a produrre modelli di forte successo commerciale anche a Mirafiori e Cassino.
In un settore sempre più condizionato da complesse questioni geo-politiche, c’è poi da attendersi che i governi degli stati coinvolti e le parti sociali abbiano un ruolo importante nell’orientare le scelte della nuova società, anche sul piano operativo. Raramente, infatti, la “mano invisibile” del mercato orienta le decisioni di investimento nell’industria automotive. L’intenzione di costruire un gruppo europeo forte merita un plauso in un momento storico in cui l’Europa sembra disgregarsi in particolarismi. Tuttavia, di fronte alle buone prospettive per gli azionisti, ma senza informazioni sul percorso organizzativo e industriale che porterà alle sinergie annunciate e alla luce delle più che probabili pressioni politiche, è davvero difficile affermare che la fusione genererà valore per tutti gli stakeholder in gioco.
Quindi i lavoratori dei centri di ingegneria, fornitori, rete distributiva e attività post-vendita, personale impiegato nelle fabbriche – dipendono dal successo operativo della fusione, che è tutt’altro che scontato. Il successo dell’operazione dipende, infatti, dal fatto che l’unione delle forze di Fca e Psa riesca a tradursi in una crescita complessiva delle vendite, grazie a nuovi prodotti e servizi che risultino nel complesso più appetibili sul mercato e competitivi rispetto a quelli attuali. Se non sarà così, ovvero a parità di volume di vendite, la fusione produrrà il valore promesso (le “sinergie”) solo con un taglio dei costi.
La storia mostra che il successo di fusioni e acquisizioni nell’industria dell’auto è tutt’altro che scontato, soprattutto se si tratta di “fusioni tra pari”. Dal tentativo tra Renault e Volvo negli anni Ottanta e Novanta alla drammatica esperienza tra Daimler e Chrysler o tra Gm e Fiat a cavallo del 2000, le esperienze fallimentari prevalgono, lasciando pesanti perdite e distruzione di valore a smentire commentatori ed esperti pronti ad assicurare complementarietà e sinergie. Siamo sconcertati, vista la portata di questa Fusione, che il Governo Italiano non abbia ritenuto di sentire ancora Fca, chiaro segno dei tempi, dove in Italia di Italiano ci e’ rimasto ben poco.
Giuseppe Failli
Coordinatore Nazionale Automotive
Cisal Metalmeccanici