Malattia di Fabry: i fattori epigenetici influenzano gravità e decorso della patologia secondo il prof. Lorenzo Chiarotti dell’Università Federico II di Napoli
Nella malattia di Fabry, la gravità dei sintomi e la progressione della patologia sono determinate non solo da fattori genetici, e quindi dalla mutazione del gene dell’alfa galattosidasi A, ma anche da fattori epigenetici. Un argomento, questo, che è stato affrontato durante il recente evento “Time to Fabry”, che si è svolto a Milano il 22 e 23 novembre scorsi.
È ormai appurato che il DNA non è l’unica informazione genetica tramandata dai genitori ai figli. Infatti, anche le istruzioni epigenetiche, che all’interno delle cellule regolano l’espressione dei vari geni senza che sia alterata la sequenza del DNA, sono trasmesse alla prole. Questo vuol dire che la memoria epigenetica è essenziale per lo sviluppo e per la sopravvivenza delle nuove generazioni.
Come ha spiegato il prof. Lorenzo Chiarotti, del Dipartimento DMMBM-CE.IN.GE. dell’Università Federico II di Napoli, “il nostro DNA ha due codici: uno genetico e uno epigenetico. Quello genetico è costituito dalle 3 miliardi di basi che ci sono nel nostro genoma, e che sono identiche in tutte le cellule; quello epigenetico si sovrappone al primo dando ulteriori informazioni, non tanto di tipo strutturale, ma sul come e quando utilizzare le varie parti del genoma, e quindi i geni”.
“I geni, dunque – ha aggiunto il prof. Chiarotti – vengono programmati a funzionare attraverso meccanismi epigenetici che indirizzano le cellule verso una specializzazione precisa (ad esempio le cellule epiteliale, retiniche, etc.). Questo codice si forma durante lo sviluppo e si mantiene nel tempo, ma può essere influenzato nel corso della vita, dall’ambiente”.
La malattia di Fabry ha un’incidenza pari a circa 1:80.000, è legata al cromosoma X e correlata al gene GLA, che codifica per l’enzima alfa-galattosidasi A. La patologia è causata da più di 400 diverse mutazioni a carico di GLA, mutazioni che causano un deficit di alfa-galattosidasi A e che si manifestano con fenotipi differenti, che coinvolgono più organi, come il cuore, i reni e il cervello.
“Il cromosoma X, nelle donne, va incontro ad inattivazione secondo meccanismi epigenetici”, ha sottolineato il prof. Chiarotti. “A volte, questa inattivazione non è casuale ma è a favore dell’allele malato o sano del gene GLA, e ciò significa che può creare in alcuni casi un decorso migliore, in altri un decorso peggiore. I nostri studi in questo ambito hanno cercato di capire i casi in cui le donne che mostrano un fenotipo Fabry hanno un’inattivazione non bilanciata del cromosoma X, ma soprattutto se hanno un’inattivazione non bilanciata proprio del gene coinvolto nella malattia, perché potrebbe non sempre corrispondere”.
Gli studi sui fattori epigenetici condotti dal team del prof. Chiarotti hanno analizzato il gene GLA con strumentazioni ad altissima risoluzione arrivando a discriminare esattamente i due alleli del gene, quello sano e quello malato. In tal modo, si può identificare una sorta di codice per ogni individuo, a cui, si spero presto, la ricerca possa dare una giusta lettura per avere informazioni sull’evoluzione della malattia di Fabry.