La lingua parlata influenza manifestazione e diagnosi di alcune malattie neurologiche: è il risultato di uno studio dei ricercatori del San Raffaele
La lingua parlata può influenzare il modo in cui si manifestano alcune malattie neurologiche che colpiscono il linguaggio e di conseguenza le modalità con cui possono essere efficacemente diagnosticate.
È questo il risultato di una ricerca frutto della collaborazione fra il gruppo guidato da Massimo Filippi – professore ordinario presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e primario di Neurologia e Neurofisiologia presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, dove dirige anche l’Unità di ricerca in Neuroimaging – e il Centro della Memoria e dell’Invecchiamento della University of California San Francisco. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Neurology, si concentra sull’afasia primaria progressiva (APP), in particolare sulla variante non-fluente, e mette a confronto pazienti americani di lingua inglese e pazienti italiani. I risultati suggeriscono per la prima volta che i criteri diagnostici per la patologia – selezionati studiando i pazienti di lingua inglese – potrebbero non essere ugualmente efficaci per riconoscere pazienti che parlano altre lingue.
Che cos’è l’afasia primaria progressiva
L’APP è un disturbo del linguaggio caratterizzato da un’alterazione della comprensione o della produzione verbale. Deriva principalmente da una degenerazione dei centri del linguaggio nella corteccia cerebrale, in particolare delle aree fronto-temporali sinistre. Tra le manifestazioni cliniche dell’APP, c’è una variante, chiamata non-fluente, caratterizzata da un disturbo dell’espressione delle parole.
Trattandosi di una sindrome neurologica con una manifestazione complessa, non è sempre facile da individuare in modo corretto. Esistono infatti altre varianti dell’APP che hanno patologia e decorso clinico differenti o altre malattie neurodegenerative, come la più comune malattia di Alzheimer, che possono manifestarsi con disturbi del linguaggio simili.
La diagnosi di APP è quindi spesso lunga e difficile, supportata sia da esami strumentali e di laboratorio sia da test neuropsicologici basati sulle capacità di linguaggio dei pazienti. In particolare, questi test si basano sulla ricerca di due sintomi: agrammatismo (la difficoltà di costruire frasi grammaticamente complesse e corrette) o distorsioni fonetiche (la difficoltà a pronunciare correttamente le parole). Basta avere uno dei due sintomi in modo sufficientemente grave per essere diagnosticato come afasico non-fluente.
Lo studio
Nel mirino dei ricercatori che hanno firmato lo studio appena pubblicato ci sono proprio i criteri diagnostici dell’APP. La scelta dei due criteri diagnostici fondamentali per l’afasia non-fluente– ovvero la valutazione della capacità di pronuncia e di costruzione grammaticale – è infatti il frutto di ricerche condotte su pazienti di madrelingua inglese. Come sappiamo, tuttavia, gli aspetti intrinseci delle lingue parlate possono essere molti diversi fra loro.
“L’italiano è una lingua assai complessa dal punto di vista morfo-sintattico ma relativamente semplice per quanto riguarda la fonetica; viceversa, l’inglese presenta frasi più lineari ma con difficoltà di pronuncia evidenti dovute alla presenza di molte consonanti”, spiega Elisa Canu, primo autore dello studio. “La nostra ipotesi era che la differenza tra le lingue, non presa fino a oggi in considerazione, potesse creare dei problemi nella diagnosi di questo tipo di patologie”.
Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno reclutato 38 pazienti affetti da afasia primaria progressiva di tipo non-fluente, di cui 18 madrelingua italiani e 20 madrelingua inglesi. Dopo avere ricevuto una valutazione completa, tra cui esami di laboratorio, di risonanza magnetica (MRI) e PET con l’obiettivo di accertare la correttezza della diagnosi (che richiede, tra le altre cose, l’esclusione della presenza di placche amiloidi nel cervello e quindi dell’ipotesi di Alzheimer), i pazienti hanno effettuato le batterie di test linguistici e neuropsicologici per la diagnosi dell’APP.
Il risultato: la lingua influenza la manifestazione della malattia
Il risultato dello studio mostra come a parità di danno cerebrale dei pazienti inglesi e italiani, i sintomi sono diversi a seconda della lingua di appartenenza: i pazienti inglesi presentano prevalentemente problemi di pronuncia; mentre i pazienti italiani faticano a costruire frasi complesse dal punto di vista grammaticale e sintattico, ma non hanno alcun problema fonetico.
“A prescindere dal caso specifico dell’APP, lo studio suggerisce più in generale la rilevanza delle differenze linguistiche nella valutazione dei pazienti affetti da disturbi neurologici del linguaggio e quindi la necessità di una maggiore attenzione e di nuove ricerche in questo campo. Molti dei criteri diagnostici odierni, basati sui sintomi dei pazienti di madrelingua inglese, rischiano di escludere una fetta di pazienti”, conclude il Professor Massimo Filippi.
Lo studio è stato possibile anche grazie al supporto del Ministero della Salute.