Mucopolisaccaridosi di tipo 1, gli esperti consigliano lo screening neonatale: una diagnosi alla nascita permette di modificare la malattia
Gli esperti sono tutti d’accordo: lo screening neonatale per la mucopolisaccaridosi di tipo I è utile e consigliato. Un gruppo di lavoro internazionale, composto da tredici specialisti in pediatria, malattie rare e malattie metaboliche ereditarie provenienti dall’Europa e dal Medio Oriente, si è riunito per discutere sui modi per migliorare la diagnosi precoce della patologia; lo studio è stato pubblicato sulla rivista Acta Paediatrica.
Fra gli autori c’è Maurizio Scarpa, Professore di Pediatria all’Università di Padova e direttore del Centro di Coordinamento Regionale Malattie Rare del Friuli Venezia Giulia. “Negli ultimi anni si è parlato molto di questa patologia e la capacità dei medici di diagnosticarla è aumentata costantemente”, afferma il prof. Scarpa. “Tuttavia, passa ancora troppo tempo fra i primi sintomi e la diagnosi: occorre continuare a fornire ai medici di base gli strumenti conoscitivi, in modo che al primo sospetto possano indirizzare tempestivamente il bambino ai Centri malattie rare”.
La mucopolisaccaridosi di tipo I (MPS I) è una malattia rara da accumulo lisosomiale, multisistemica e progressiva, causata da un deficit dell’enzima alfa-L-iduronidasi che provoca l’accumulo graduale di glicosaminoglicani (GAG) in tutti gli organi e tessuti. Ma quali sono i campanelli d’allarme che dovrebbero far pensare alla MPS I? “La malattia, purtroppo, non ha dei segni specifici e univoci. Sicuramente, però, bisognerebbe preoccuparsi se il neonato, nel primo anno di vita, non rispetta le tappe tipiche dello sviluppo, ha dei deficit cognitivi, è più grande della media, ha delle fattezze grossolane, fegato e milza più grandi del normale, infezioni ed ernie inguinali ricorrenti. Nei casi meno severi, invece, può verificarsi rigidità articolare ed epatosplenomegalia”, spiega Scarpa, dal 2017 coordinatore della MetabERN, la rete europea di riferimento dedicata alle malattie metaboliche ereditarie.
Rilevare la malattia in tempi utili significa poter scegliere l’opzione terapeutica migliore a seconda della gravità della malattia: il trapianto di cellule staminali (provenienti dal midollo osseo o dal sangue del cordone ombelicale di un donatore sano) nei casi più severi, o la terapia enzimatica sostitutiva in quelli più lievi, senza coinvolgimento neurologico. Più la diagnosi è precoce, maggiori sono le probabilità che gli interventi terapeutici disponibili siano efficaci: ad esempio, il trapianto è in grado di modificare la progressione neurologica della malattia solo se effettuato entro i due anni di vita. Per questo motivo, in vari Paesi del mondo la MPS I è stata inserita nel pannello delle malattie oggetto di screening neonatale: ciò è avvenuto negli Stati Uniti (in Missouri, Illinois e nello Stato di Washington), in Brasile e a Taiwan, e l’inclusione della malattia è stata raccomandata nei Paesi Bassi. Studi pilota per lo screening neonatale di questa patologia sono in corso dal 2016 anche in Italia: in Toscana, Friuli e parte del Veneto.
“Ci sono tutti i presupposti perché la Mucopolisaccaridosi di tipo I faccia parte del pannello di screening a livello nazionale”, sottolinea Scarpa. “Questo test è utile sia per fare la diagnosi alla nascita che per seguire la storia della malattia. L’ostacolo principale, infatti, è capire se il paziente svilupperà una forma severa come la sindrome di Hurler, un fenotipo clinico intermedio come l’Hurler-Scheie o uno meno grave come la sindrome di Scheie: solo in seguito si potrà decidere qual è il tipo di terapia più adatto. In alcuni casi, inoltre, può verificarsi uno pseudo-deficit enzimatico, cioè quando i soggetti mostrano un’attività enzimatica al di sotto della norma, ma si tratta di falsi positivi. Grazie ai progetti pilota avviati in Italia, si potranno valutare tutti gli scenari e quindi offrire ai pazienti il regime terapeutico più adeguato”, prosegue Scarpa.
“L’Italia, nell’ambito delle malattie rare, sta facendo un ottimo lavoro: si tratta di un tema molto presente anche in Parlamento, come dimostra un disegno di legge attualmente in discussione alla Camera. La Comunità Europea ha dato un grande contributo alla gestione di queste malattie con la creazione degli ERN, le reti di riferimento europee, ma in Italia c’è ancora molto da fare: nonostante sia il Paese che ha contribuito con il numero maggiore di centri clinici agli ERN, non si è ancora pensato a come integrare i centri ERN, riconosciuti a livello europeo, con la rete regionale delle malattie rare”, conclude il prof. Scarpa. “Speriamo che il nuovo Piano Nazionale Malattie Rare possa ottimizzare il ruolo di queste strutture e colmare le lacune: si tratta di un tema che non può essere affrontato a livello regionale”.