Osteoporosi: l’utilizzo di zoledronato preserva il beneficio di denosumab alla sua sospensione: lo dimostrano i risultati di uno studio pubblicato su JBM
Le donne affette da osteoporosi (OP) in post-menopausa che sono sottoposte a infusione singola di zoledronato dopo terapia con denosumab (in un periodo di tempo compreso da 2 a 5 anni) mostrano livelli di densità minerale ossea guadagnati con quest’ultimo (prima di sospenderne l’assunzione) superiori al 50%, insieme ad un mancato incremento di insorgenza di fratture vertebrali.
Lo dimostrano i risultati di uno studio osservazionale, pubblicato su JBMR, che suggerisce una possibile modalità di gestione terapeutica di queste pazienti dopo sospensione del trattamento con l’anticorpo monoclonale totalmente umanizzato che inibisce RANKL.
Razionale e disegno dello studio
“La sospensione del trattamento con denosumab è notoriamente associata ad un rapido ritorno ai livelli di densità minerale ossea pre-trattamento, nonché ad un innalzamento del rischio di fratture vertebrali multiple – ricordano i ricercatori nell’introduzione al lavoro”.
L’assenza di regimi di trattamento alternativi, in grado di prevenire la perdita di DMO o l’insorgenza di fratture vertebrali multiple dopo sospensione del farmaco ha portato ad implementare questo studio, di disegno osservazionale e della durata pari a 8 anni, che si è proposto l’obiettivo di studiare l’effetto di un’infusione singola di zoledrontato, somministrata a 6 mesi dall’ultima iniezione di denosumab, sul rischio di frattura e la perdita di DMO.
A tal scopo, i ricercatori hanno analizzato retrospettivamente i dati relativi a 120 donne affette da OP post-menopausale, di etnia Caucasica, trattate con 60 mg di denosumab a cadenza semestrale e per un lasso di tempo compreso tra 2 e 5 anni (durata media: 3 anni), e successivamente sottoposte a infusione con zoledronato 5 mg a 6 mesi dall’ultima iniezione di denosumab.
Nello specifico, è stata effettuata una valutazione delle fratture vertebrali (mediante DEXA) prima del trattamento iniettivo iniziale e dopo quello finale con denosumab, nonché a distanza di 2,5 anni (valore mediano) dalla sospensione del trattamento con denosumab.
Considerando la coorte di pazienti in toto, 97 (pari all’81% del campione) era state sottoposte a 4-6 iniezioni di denosumab sottocute, 11 donne (9%) a 7-9 iniezioni e 12 donne (10%) a 10 iniezioni di denosumab.
Risultati principali
Dopo sospensione del trattamento con denosumab, tre donne sono andate incontro ad un singolo evento di frattura vertebrale sintomatico a distanza di 1-3 anni dall’ultima iniezione, con un tasso di incidenza pari a 1,1 per 100 pazienti-anno. Nessuna delle pazienti del campione ha sviluppato fratture vertebrali multiple. Quattro donne, invece, sono andate incontro a fratture periferiche sostenute, con un tasso di incidenza pari a 1,4 per 100 pazienti-anno.
Dopo sospensione del trattamento con denosumab, i ricercatori hanno osservato riduzioni della DMO in tutti i siti anatomici studiati nella coorte (p<0,0001 a livello della colonna lombare; p<0,005 a livello del collo femorale).
Le perdite di tessuto osseo si sono manifestate entro i primi 18 mesi dall’infusione di zoledronato e che il 66%, il 49% e il 57% dei guadagni di DMO conseguiti con denosumab a livello della colonna lombare, dell’anca in toto e del collo femorale, rispettivamente, erano stato preservati grazie all’infusione del BSF.
Non sono state rilevate differenze significative, invece, tra le pazienti con guadagni di DMO >9% vs. <9% durante il trattamento con denosumab in termini di riduzione di DMO.
Da ultimo, le pazienti con o senza trattamento pregresso con BSF e quelle sottoposte o meno a “vacanza terapeutica” hanno sperimentato riduzioni simili percentuali della DMO a livello della colonna lombare dopo interruzione del trattamento con denosumab.
Riassumendo
“L’adozione di questo regime terapeutico pragmatico, che consente di mantenere sostanzialmente intonso il guadagno osseo ottenuto con denosumab mediante aggiunta di un BSF alla sospensione del trattamento con l’anticorpo monoclonale che inibisce RANKL, potrebbe configurarsi come uno step promettente, valido ai fini dell’identificazione di strategie sequenziali di trattamento a lungo termine nell’OP – scrivono i ricercatori nelle conclusioni del lavoro”.
“Ciò detto – aggiungono – è necessario che ciascuna paziente sia sottoposta a monitoraggio individualizzato e ad un piano di trattamento da adottare dopo la sospensione di denosumab, comprendendo la valutazione della DMO, quella dei marker di turnover osseo, nonché dei fattori di rischio clinico individuali, come le fratture di fragilità”.