Amara terra mia: a Palazzo Ferri di Atessa fino al 28 marzo una mostra sulla grande emigrazione italiana fra ‘800 e ‘900
La vicenda storica del Titanic è presente nell’immaginario contemporaneo nel colossal di James Cameron che vide protagonisti Leonardo di Caprio e Kate Winslet nei ruoli, rispettivamente, di Jack e Rose, espressione di due differenti condizioni sociali. In effetti, accanto a personaggi della aristocrazia britannica, banchieri, industriali, sul transatlantico viaggiavano, stipati in terza classe, numerosi emigranti provenienti da vari paesi, non solo europei, in cerca di fortuna negli Stati Uniti. Tra i superstiti del viaggio inaugurale del Titanic, partito da Southampton e diretto a New York, c’era anche Luigi Finoli, che faceva rientro a New York, dove era emigrato nel 1899.
Finoli era nato ad Atessa (Chieti) nel 1870 e negli Stati Uniti svolse soprattutto l’attività di commerciante, prima a New York e New Haven e quindi a Philadelphia, una delle città storiche dell’emigrazione italiana in America, dove era presente una consistente comunità abruzzese. Quel 14 aprile 1912 si salvò dal naufragio, ritenuto il più disastroso della storia, riuscendo ad aggrapparsi ad una scialuppa. Nel 1935 rientrò definitivamente in Italia, morendo nella sua Atessa tre anni dopo.
Apprendiamo queste notizie da un pannello, corredato da una rara foto del superstite, della mostra “Amara terra mia”, sulla grande emigrazione italiana fra ‘800 e ‘900, organizzata dalla Fondazione MuseAte, con il patrocinio del Comune, ed esposta nel Palazzo Ferri di Atessa, in Corso Vittorio Emanuele, n. 116. Un lavoro accurato, ben sviluppato da un team che ha operato con passione e dedizione, composto dalla presidente della Fondazione, Adele Cicchitti e da Anna D’Antino, Nicola Ciliberti, Anna Pia Apilongo e Mario Fornarola.
La mostra fornisce uno sguardo generale sull’emigrazione italiana, con finalità soprattutto didattico-formative, al fine di avvicinare, in particolare, le giovani generazioni ad un fenomeno complesso che non sempre è sufficientemente conosciuto e soprattutto studiato, proprio in una terra che ha storicamente rappresentato una delle aree di provenienza dei maggiori flussi in uscita rispetto alla popolazione residente, sin dal periodo post-unitario. Probabilmente ciò è dovuto anche al desiderio di rimuovere quegli aspetti della vita sociale inscindibilmente legati allo stato di miseria che costituì la causa fondamentale dell’esodo. Un oblio che sembra saltuariamente interrotto solo dalla riscoperta di personaggi di successo o in coincidenza con visite di discendenti che si sono particolarmente affermati, come avvenuto nel recente caso di Mike Pompeo, primo segretario di stato USA di origini italiane.
Il picco nelle uscite fu raggiunto all’’inizio del ‘900. Un fenomeno che, nello specifico dell’Abruzzo, fu descritto in modo inequivocabile come “l’improvviso erompere di una corrente migratoria così gagliarda e nutrita da rendere l’immagine di un fiume in piena” (cfr. Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e della Sicilia, Roma, 1909). In effetti nel solo periodo 1901-1910 lasciarono la regione, allora unita al Molise, ben 417.775 persone, considerando la sola emigrazione transoceanica. Anche la scrittrice inglese Anne MacDonell, nel suo racconto di viaggio riscontrò con curiosità che “la più comune decorazione sui muri dei paesi abruzzesi è l’avviso delle linee transatlantiche per emigrare» (In the Abruzzi, London, 1908).
Per altro verso Pascal D’Angelo, nel suo romanzo autobiografico Son of Italy, pubblicato a New York nel 1924, scrisse non senza amarezza che “Un tempo non c’era scampo… oggi la via d’uscita esiste e si chiama America”. In questi ultimi anni il flusso migratorio in uscita è peraltro ripreso, sia pure con caratteristiche diverse rispetto al passato e con riflessi sempre più evidenti relativamente allo spopolamento delle aree interne.
Una serie di immagini, documenti, pubblicità delle compagnie di navigazione, biglietti di viaggio, passaporti e permessi, illustrano il “rito” della partenza, con il distacco dalla propria terra e spesso dalle proprie famiglie verso destinazione prevalentemente sconosciute. Oltre al naufragio del Titanic, ricordiamo il pannello che ricostruisce il dramma della nave Utopia, partita da Trieste e colata a picco nei pressi di Gibilterra il 17 marzo 1991, nella quale persero la vita molti emigranti italiani, tra cui 15 provenienti da Fraine, piccolo paese della provincia di Chieti e 14 partiti da Carovilli, in provincia di Isernia. Varie immagini ricostruiscono il passaggio obbligato di Ellis Island, una volta giunti a New York.
Un’interessante ricerca, esposta alla riflessione dei visitatori, riepiloga pregiudizi, etichette e luoghi comuni, intrisi di ostilità, razzismo e addirittura d’odio, che caratterizzavano “l’accoglienza” e la vita degli italo-americani. Una vita assai difficile, che indusse gli italiani e soprattutto quelle comunità provenienti dalla stessa aerea a legarsi attivamente, dando forma a strutturate modalità di solidarietà, come nel caso della “Società di Mutuo Soccorso degli Atessani di Philadelphia”, fondata nel 1906, la cui storia è ricostruita in uno specifico pannello, mentre in un altro si espongono alcuni documenti della raccolta dei fondi per le feste patronali in paese.
Ma la Società raccolse generosamente fondi anche in occasione del terremoto di Messina (1908) e quello della Marsica (1915), mantenendo in ogni occasione forti legami con l’Italia. Negli anni trenta facevano parte della Società oltre 300 famiglie, tra cui quella di Roberto Carlo Venturi, padre di Bob Venturi, uno dei più prestigiosi architetti americani del ‘900, scomparso nel 2018 e pure legato alla terra di origine del padre.
Una sezione interessante riguarda le rimesse degli emigranti, che ebbero un ruolo fondamentale per il sostegno delle famiglie rimaste in Italia, attraverso l’esposizione di documentazione bancaria sui trasferimenti in denaro da Argentina, Stati Uniti, ecc. In proposito occorre sottolineare l’importanza dei documenti provenienti dall’archivio di Duilio e Mario Fornarola, costruito pazientemente nel corso del tempo e comprendente atti a partire dalla fine dell’800, come circolari ministeriali, ricerche di personale, istruzioni limitative dei visti per gli Stati Uniti, ma anche giornali e riviste d’epoca, foto di famiglia e cartoline spedite ai familiari rimasti in Italia.
Alcune informative ministeriali permettono, in particolare, di comprendere i meccanismi della divulgazione di notizie sulla disponibilità di lavoro all’estero come, ad esempio, alcune che mettevano in guardia le autorità locali (1884) sulla presenza di “speculatori”, tra gli agenti locali delle compagnie di navigazione per l’orientamento di emigranti verso l’America e l’Australia, o come l’appello (1889) in cui si partecipava l’interesse ad arruolare di 2000 operai per la costruzione della ferrovia Salta-Jujuy, nel nord dell’Argentina, espresso dall’impresa di John Jackson, che aveva inviato in Italia un suo rappresentante, il quale avrebbe assicurato l’anticipo della metà delle spese della traversata, venendo incontro al problema che molti incontravano nel raccogliere i denari necessari per l’acquisto del biglietto.
Al tempo stesso, l’informativa assumeva caratteri contraddittori, laddove di fatto sconsigliava apertamente di aderire all’offerta, poiché i lavoratori sarebbero stati impegnati a lungo in “aree tra le meno salubri” dell’Argentina, sottoscrivendo contratti con vincoli temporali che avrebbero impedito di venir meno al rapporto di lavoro.
Qualche considerazione è necessaria, infine, sul titolo della mostra – “Amara terra mia” – che per molti richiama quello della canzone che Domenico Modugno riprese dalla tradizione popolare abruzzese. Il canto, riproposto recentemente anche da Ermal Meta, era originariamente diffuso soprattutto tra le raccoglitrici di olive dell’area frentana come “Addije, addije amore”, ricordando, appunto, storie di sofferenza e di separazione comuni a generazioni di emigranti.
La mostra Amara terra mia, allestita nel Palazzo Ferri di Atessa – che in altre sale ospita anche la straordinaria collezione di opere di Aligi Sassu – è visitabile fino al 28 marzo 2020, nei giorni di sabato e domenica, dalle ore 18 alle 20, con ingresso libero. Visite di gruppi in altri giorni sono possibili dietro prenotazione.