Crohn e colite ulcerosa, verso terapia personalizzata


Personalizzare la terapia per i pazienti con malattia di Crohn e colite ulcerosa potrebbe diventare una routine in pratica clinica grazie a un nuovo studio

Malattia di Crohn, un gruppo di ricercatori è riuscito a identificare alcuni predittori di risposta a ustekinumab. I risultati al Congresso dell'American College of Gastroenterology

È possibile personalizzare la terapia per i pazienti con malattia di Crohn e colite ulcerosa? Oggi questo non è ancora realizzabile ma nel prossimo futuro potrebbe diventare una routine in pratica clinica grazie alla valutazione di alcuni biomarcatori di risposta alla terapia.

Questo grazie anche a uno studio appena pubblicato su Journal of Crohn’s and Colitis da ricercatori italiani tra cui il prof. Flavio Caprioli del dipartimento di Fisiopatologia Medico Chirurgica e dei Trapianti Università degli Studi di Milano e UO di Gastroenterologia ed Endoscopia Ospedale Policlinico di Milano, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Genetica Molecolare, l’Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’ e l’Istituto Europeo di Oncologia. Nello studio è stato appurato che un pannello di variabili immunologiche circolanti e della mucosa risulta associato alla risposta al trattamento con vedolizumab.

Vedolizumab (VDZ) è un anticorpo monoclonale diretto contro l’eterodimero di integrina α4β7, approvato per i pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD).

“Ad oggi il vedolizumab può essere prescritto in tutti i pazienti con rettocolite ulcerosa che siano refrattari o dipendenti dalla terapia corticosteroidea ed aver fallito o avere controindicazioni per le tiopurine, a prescindere dal fallimento di una terapia biologica pregressa, quindi anche pazienti naive agli anti-TNF. Nella malattia di Crohn, invece, vedolizumab è prescrivibile come biologico di prima linea in pazienti che abbiano delle controindicazioni relative agli anti-TNF; il vedolizumab viene utilizzato ad esempio nel trattamento dei pazienti con pregresse neoplasie, pregresse infezioni, nei forti fumatori” ha precisato Caprioli, in una intervista telefonica per Pharmastar.

Anche se VDZ ha dimostrato efficacia clinica ed endoscopica nei pazienti con IBD sia negli studi clinici che negli studi del mondo reale, una percentuale significativa di pazienti non risponde a questo trattamento e deve ricorrere ad altre terapie per controllare l’attività della malattia.

I meccanismi alla base della mancata risposta primaria a vedolizumab sono ancora in gran parte sconosciuti e si stanno compiendo sforzi per identificare eventuali variabili che predicano la risposta a questa terapia.
L’identificazione di bio-marcatori in grado di prevedere l’efficacia di vedolizumab nei pazienti con IBD sarebbe altamente rilevante per la pratica clinica, raccomandando potenzialmente un uso precoce di questo farmaco in pazienti con predittori di risposta favorevoli.

La conoscenza di un target cellulare definito di vedolizumab porta a ipotizzare che il profilo immunologico dei linfociti circolanti e intestinali possa rappresentare una risorsa per la gestione terapeutica.
Di seguito riportiamo i risultati di questo studio interventistico prospettico esplorativo di fase IV, volto a identificare i fattori immunologici associati alla risposta a vedolizumab in pazienti con IBD.

“E’ uno studio partito 3 anni fa nel momento in cui si è reso disponibile un farmaco biologico nuovo di cui erano noti sia il meccanismo d’azione che il target cellulare (recettore). Abbiamo pertanto voluto capire se fosse possibile sfruttare questo attore, e quindi i livelli di espressione dell’integrina a4b7, su vari tipi di cellule infiammatorie per capire se in questo modo era possibile predire la risposta alla terapia. Questo perché esiste una quota di pazienti che non rispondono a questo farmaco pertanto, considerando che abbiamo e avremo sempre più a disposizione diversi biologici con meccanismi d’azione differenti, è molto rilevante capire se c’è una popolazione di pazienti che risponde selettivamente a un farmaco piuttosto che ad un altro” ha spiegato Caprioli.

Questo studio mirava a identificare le variabili immunologiche associate alla risposta a vedolizumab in pazienti con colite ulcerosa (UC) e malattia di Crohn (CD).
Dato il ruolo chiave dei linfociti CD4+ T-helper nella modulazione della risposta infiammatoria associata alle IBD, gli autori hanno focalizzato l’attenzione sulle sottoclassi di linfociti T-helper memory, tra cui Th1 e Th17, nonché su cellule T regolatorie. Tale studio è stato possibile grazie all’analisi citofluorimetrica multidimensionale dei sottogruppi di T-helper del sangue periferico e della mucosa. Sono stati inoltre valutati i livelli di un pannello di bio-marcatori infiammatori solubili circolanti.

Sono stati considerati pazienti con IBD attiva da almeno 6 mesi, di età compresa tra i 18 e gli 80 anni e che hanno ricevuto VDZ in aperto alle settimane 0, 2, 6 e 14.
I pazienti con risposta clinica alla settimana 14 hanno ricevuto vedolizumab ogni 8 settimane per un anno, mentre il trattamento è stato interrotto per i pazienti che non rispondevano alla settimana 14. Sono stati valutati la risposta e la remissione clinica alla settimana 14, la remissione clinica alla settimana 54 e la risposta endoscopica alla settimana 14.

Ventiquattro ore prima della somministrazione di vedolizumab alla settimana 0 e alla settimana 14, è stato prelevato il sangue periferico ed è stata eseguita una colonscopia, in cui sono state eseguite 4 biopsie dall’area più rappresentativa dell’infiammazione della mucosa.

“Attraverso una ricerca mirata, basata anche sull’uso della citofluorimetria, siamo andati a correlare i parametri immunologici basali del paziente con la risposta a questo trattamento. È stato un lavoro molto complesso in cui abbiamo abbinato una valutazione clinica a una endoscopica. Abbiamo infatti eseguito due endoscopie a distanza di 14 settimane e facendo poi un follow up clinico fino a 1 anno. Tutte queste valutazioni sono state eseguite sul sangue periferico e su biopsie intestinali, valutando i T helper e le cellule T regolatorie” ha aggiunto Caprioli.

Un pannello di mediatori solubili è stato valutato nel siero al basale e alla settimana 14.
Sono stati inclusi nell’analisi i risultati di 38 pazienti con IBD (20 UC, 18 CD). Alla settimana 14, la percentuale di risposta clinica e di remissione erano dell’87% e del 66%, rispettivamente.

Erano presenti livelli basali più elevati di cellule Th1 circolanti in pazienti con risposta clinica alla settimana 14 (p=0,0001), mentre ridotti livelli basali di cellule Th17 e Th1/17 di memoria della lamina propria erano associati alla risposta endoscopica.
È stato inoltre evidenziato come alcuni cluster immunologici fossero associati in modo indipendente con gli esiti di vedolizumab in una analisi multivariata.
È stato trovato un pannello di marcatori solubili, tra cui IL17A, TNF, CXCL1, CCL19 per CD e G-CSF e IL7 per UC, associati alla remissione clinica alla settimana 54 indotta da vedolizumab.

Le frequenze dei sottogruppi di cellule T infiammatorie e regolatorie circolanti e infiltranti nell’intestino al basale erano correlate con la risposta clinica ed endoscopica a vedolizumab nel breve e nel lungo termine.
“I pazienti che hanno elevati livelli di Th1 circolanti sono fortemente responsivi alla terapia dal punto di vista clinico; mentre, i pazienti che hanno elevati livelli di Th17 a livello della mucosa non rispondono alla terapia, dal punto di vista endoscopico. Dalla valutazione della remissione combinata, clinica ed endoscopica, sono sempre i linfociti Th17 a livello intestinale che quando presenti in numero elevato sono un forte fattore di non risposta alla terapia” ha spiegato Caprioli.

In conclusione, i risultati di questo studio esplorativo evidenziano un pannello di variabili immunologiche circolanti e della mucosa associate alla risposta al trattamento con vedolizumab. “Questi dati andranno validati in maniera indipendente in una seconda coorte per poi poter essere utilizzati dal punto di vista clinico. Basta, dunque, una biopsia intestinale alla prima endoscopia per poter eseguire una valutazione delle sottoclassi di linfociti T a livello intestinale ed utilizzarla come fattore di risposta. Abbiamo anche dei dati paralleli che dimostrano come un elevato livello di Th17 a livello intestinale è un fattore di risposta positivo alla terapia con anti-TNF. Sarebbe in teoria possibile in futuro attraverso una valutazione basale dei linfociti a livello intestinale dire se un paziente è più adatto a una terapia anti-TNF o ad una terapia anti-integrine” ha concluso Caprioli.