Malattie del metabolismo: un innovativo approccio che combina terapia genica ed editing genomico ha prodotto interessanti risultati in un modello sperimentale per il deficit di ornitina transcarbamilasi
Uno dei peggiori errori che si possano fare in campo scientifico è quello di ragionare per compartimenti stagni. Seguire linee di pensiero trasversali e adottare approcci multidisciplinari è il modo migliore per ottenere buoni risultati dalle proprie ricerche e poter avanzare nella battaglia contro gravi patologie. E questo è l’approccio seguito nello studio pubblicato, lo scorso febbraio sulla rivista Science Advances, da un gruppo di studiosi dell’Università della Pennsylvania e del Children’s National Hospital di Washington, i quali hanno saputo combinare i benefici della terapia genica con quelli dell’editing genomico per trattare una rara patologia del metabolismo.
Oltre al fatto di aver trovato una nuova chiave d’accesso a un protocollo terapeutico contro una rara malattia, questo interessante lavoro permette di riassumere la differenza che esiste tra terapia genica ed editing genomico e di mostrare che questi sistemi di modifica del DNA non sono entità separate ma possono produrre risultati strabilianti se sapientemente combinati. Parlare di trattamento sarebbe prematuro ed irresponsabile ma occorre leggere il lavoro di chi ha svolto questa ricerca come un tentativo di dimostrare che la strada per curare malattie rare e devastanti passa necessariamente attraverso la sintesi di metodologie diverse.
Il deficit di ornitina transcarbamilasi
Lo studio si è focalizzato su una rara patologia del metabolismo, il deficit di ornitina transcarbamilasi (OTCD): si tratta di uno dei più comuni difetti del ciclo dell’urea, provocato dalla carenza di uno degli enzimi necessari per la sintesi di urea e contraddistinto da elevati livelli di ammoniaca nel sangue e nei tessuti e di acido orotico nelle urine. Trattandosi di una patologia ereditaria legata al cromosoma X, i maschi subiscono le conseguenze peggiori della malattia con una grave iperammoniemia neonatale che può condurre al coma e alla morte. Le femmine, che sono portatrici della malattia, presentano invece sintomi di ampio tipo comprendenti anoressia, vomito e convulsioni. Molte di esse sono addirittura asintomatiche e possono non andare incontro a iperammoniemia fino al momento della gravidanza o del parto.
E questo è un primo punto importante perché se durante la gravidanza le madri riescono ad offrire protezione ai feti da questa carenza enzimatica, una volta venuti al mondo i bambini affetti non hanno più nessun tipo di compensazione e peggiorano rapidamente nel corso della prima settimana di vita, possono andar incontro a morte prima ancora che il problema sia diagnosticato. La diagnosi precoce è fondamentale come pure l’identificazione delle donne portatrici a cui deve essere offerta una consulenza genetica. Tuttavia, le opzioni di trattamento per i bambini e i pazienti più anziani non sono molte e comprendono la limitazione all’assunzione di proteine con la dieta, la somministrazione di farmaci per il trattamento dell’iperammoniemia e, nei casi più gravi, il trapianto di fegato che non sempre è possibile vista la giovane età – e la corporatura – dei piccoli pazienti.
La messa appunto di una combo di terapie avanzate
Identificare una nuova possibile arma terapeutica è fondamentale e i ricercatori statunitensi, guidati da James Wilson, dell’Università della Pennsylvania, e Mark Batshaw, del Children’s National Hospital di Washington, potrebbero averne trovate addirittura due da combinare insieme per ottenere un effetto significativo: l’espressione parziale di ornitina transcarbamilasi (OTC) per mitigare gli effetti della patologia e garantire una maggior sopravvivenza ai pazienti. Questo è, a tutti gli effetti, lo scopo di una terapia genica che deve garantire l’espressione di un gene in maniera stabile così da curare una patologia o ridurne almeno le conseguenze. La terapia genica aveva già dimostrato di poter aiutare i pazienti affetti da questa rara malattia del metabolismo ma la precocità con cui insorge nei bambini e il rapido tasso di crescita del fegato avevano costituito un limite per il suo utilizzo negli individui più giovani. L’editing del genoma, d’altro canto, è una strategia che permette di intervenire sul DNA e correggerne gli errori. Nel 2016, questo secondo approccio è stato testato con successo, nei laboratori di Wilson e Batshaw, in un modello sperimentale dell’OTCD. Tuttavia, il sistema di editing è stato messo a punto per correggere una specifica mutazione e non si è rivelato universalmente applicabile per le oltre 400 mutazioni diverse che possono causare OTCD.
Era quindi necessario tentare un altro tipo di approccio che fosse indipendente dalla mutazione. I ricercatori hanno perciò deciso di utilizzare un vettore virale adenoassociato (AAV8) come veicolo del sistema di editing Crispr-Cas9 (composto da un RNA guida e dall’enzima necessario per il taglio) e un secondo vettore contenente la sequenza genica OTC corretta. In tal modo essi sono stati in grado di intervenire potenzialmente su tutte le mutazioni che causano la malattia. Per testare l’efficacia dell’editing genomico in vivo, hanno somministrato all’unisono entrambi i vettori in modelli murini della patologia. Grazie a questa tecnica, che unisce le potenzialità di correzione di un sistema di editing come Crispr-Cas9 e quelle della terapia genica, gli scienziati statunitensi hanno ottenuto un ripristino della produzione dell’enzima mancante utile a gestire le fasi più delicate della patologia.
Risultati preliminari incoraggianti
Le analisi di immunoistochimica sui campioni di fegato degli esemplari di topo trattati hanno messo in evidenza l’aumento di espressione di OTC del 25% a 3 settimane dalla somministrazione e del 35% a 8 settimane, a testimonianza del fatto della funzionalità del gene corretto nelle cellule e di effetto crescente nel tempo sul fegato dei topo. Tali risultati non sono stati ovviamente visti nei topi di controllo non trattati o trattati con un vettore non predisposto per il gene in esame. Inoltre, per verificare l’impatto di questo approccio ibrido, gli scienziati hanno sottoposto i topi a sette giorni di dieta iperproteica, notando che alla fine, gli esemplari trattati avevano riportato una riduzione di circa il 60% nei livelli di ammoniaca nel circolo ematico rispetto a quelli non trattati.
Si tratta di risultati estremamente positivi che da un lato ribadiscono la necessità di non pensare in maniera settoriale ma di combinare le risorse a disposizione per contrastare patologie rare – ma che un progressivo aumento di studi ha contributo ad esplorare meglio sul piano molecolare. Dall’altro va tenuto presente che questi sono pur sempre risultati preliminari, che necessitano di conferme sia sul piano della sicurezza che dell’efficacia. Tuttavia come concludono gli stessi autori, “questo approccio non è specifico per la mutazione ma può essere applicato a tutti i pazienti con questa malattia. E se funzionerà, potrebbe essere utile per creare modelli simili per trattare anche altre patologie epatiche”.