Autismo, finanziato uno studio sul ruolo di una proteina nello sviluppo della socialità: si tenta di capire se potrà essere un bersaglio farmacologico
L’autismo è una delle più frequenti patologie del neurosviluppo che si stima colpisca l’1-2% della popolazione generale. Il termine autismo (dal greco αuτός, “stesso”) è stato coniato nel 1911 dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler per indicare un sintomo comportamentale della schizofrenia, ma oggi si preferisce parlare di “disturbi dello spettro autistico”, espressione che restituisce la varietà e complessità di questa patologia. Deficit di interazione e comunicazione sociale, comportamenti ripetitivi e disabilità intellettiva sono tra le manifestazioni principali, mentre ancora resta molto da scoprire sull’origine, un connubio complesso di genetica e ambiente.
In circa il 90% dei casi la diagnosi di autismo non è riconducibile ad altre sindromi e la componente genetica si stima “pesi” per circa il 20 per cento: queste forme idiopatiche non presentano malformazioni e caratteristiche dismorfiche, come invece accade in quelle sindromiche o secondarie a cause note, che rappresentano il restante 10% dei casi e sono associate ad alterazioni di un singolo gene come per esempio la sindrome dell’X fragile, la sindrome di Timothy o la sindrome di Rett.
Ad oggi la Fondazione Telethon ha investito oltre 4 milioni di euro per studiare i meccanismi neurobiologici che potrebbero spiegare ciò che si osserva nelle persone con autismo, ma anche suggerire possibili approcci terapeutici. Enrico Cherubini è il direttore scientifico della Fondazione EBRI di Roma, l’Istituto europeo per la ricerca sul cervello fondato dal premio Nobel Rita Levi-Montalcini. Da sempre si occupa dei meccanismi con cui si forma il cervello umano e grazie a fondi Telethon studia come disfunzioni in questa fase così importante dello sviluppo possano essere alla base dell’autismo: «È sostanzialmente una malattia del neurosviluppo – spiega – che si manifesta già nei primi mesi di vita, anche se i segni più chiari compaiono intorno ai 2-3 anni. Oggi sappiamo che la componente genetica è molto importante, ma non è l’unica: anche l’ambiente, sia esterno che interno all’organismo, gioca un ruolo fondamentale. Studiando particolari difetti genetici riscontrati in alcuni pazienti è possibile trarre informazioni fondamentali estendibili anche a tutti gli altri».
Sono un centinaio oggi i geni associati ai disturbi dello spettro autistico, come confermato anche da un recente studio internazionale dell’Autism Sequencing Consortium (ASC), al quale hanno aderito anche alcuni gruppi italiani finanziati da Telethon tra cui quelli di Alfredo Brusco dell’Università di Torino e di Alessandra Renieri dell’Università di Siena: si tratta del più ampio studio di questo tipo, che grazie alle tecniche di sequenziamento di nuova generazione ha analizzato il DNA di oltre 35mila persone, di cui 12mila affette da una forma di autismo. «I geni maggiormente coinvolti nell’autismo riguardano essenzialmente tre aspetti della vita cellulare: il rimodellamento della cromatina, ovvero il modo in cui il Dna è “impacchettato” nella cellula; la regolazione della trascrizione, cioè il meccanismo con cui le “istruzioni” scritte nel Dna vengono attuate; la formazione delle sinapsi, cioè i punti di contatto tra un neurone e l’altro che rappresentano l’essenza della comunicazione nervosa. Con il supporto della Fondazione Telethon stiamo studiando proprio quest’ultimo aspetto, in particolare una proteina, la neuroligina 3 (NLG3), codificata da un gene le cui mutazioni sono responsabili di alcune forme di autismo. La NLG3 appartiene a una famiglia di proteine che hanno il compito di assicurare lo sviluppo e la stabilità delle sinapsi. Durante la fase dello sviluppo, che culminerà con la formazione dei circuiti neuronali adulti, le sinapsi vanno incontro a continui cambiamenti, se ne formano di nuove mentre altre vengono eliminate. Questi fenomeni, che sottendono processi cognitivi più complessi come l’apprendimento e la memoria, sono fortemente compromessi nei disturbi dello spettro autistico».
Cherubini e il suo team hanno quindi studiato gli effetti dell’assenza della NLG3 sul comportamento sociale di topi transgenici in cui il gene che produce la proteina è stato silenziato: «Questi topi mostrano un alterato comportamento sociale che ricorda da vicino i deficit riscontrati nei bambini autistici, in cui la socialità è fortemente compromessa per l’incapacità di comunicare idee e sentimenti e di stabilire relazioni con gli altri. Per esempio, non sono in grado di discriminare tra un oggetto inanimato e uno animato, o tra un topolino familiare e uno sconosciuto. Mentre in condizioni di controllo il topolino testato preferisce esplorare il topo piuttosto che un oggetto ed è attratto dal topo sconosciuto rispetto a quello familiare, questo non avviene in assenza della NLG3. Questi studi hanno permesso inoltre di identificare a livello dell’ippocampo un’area “sociale” del cervello fino a poco tempo fa sconosciuta, responsabile di queste alterazioni».
Prossimo passo sarà capire se questa proteina possa essere un bersaglio farmacologico utile per riattivare la plasticità sinaptica perduta. Attualmente non esiste una terapia specifica per i disturbi dello spettro autistico e, come ricorda Cherubini, «è difficile immaginare un trattamento unico per una patologia così complessa. Finora vengono attuati interventi differenziati su sintomi specifici. Per esempio, prospettive interessanti sono quelle offerte dal bumetanide, un diuretico in uso da moltissimi anni, che è ben tollerato anche in età infantile e si sta dimostrando in grado di migliorare sintomi quali i deficit sociali e i comportamenti stereotipati. Grazie alla sua capacità di abbassare i livelli intracellulari di cloro, questo farmaco contribuisce a riequilibrare uno dei principali messaggeri delle cellule nervose coinvolte. I primi risultati dello studio clinico in alcuni bambini di età compresa tra i 3 e gli 11 anni sono stati positivi, tanto che il trial è stato ampliato in vista di una possibile approvazione nei prossimi anni».
Accanto allo sviluppo di nuove terapie, gli sforzi devono andare anche in un miglioramento della diagnosi: più è precoce, tanto più interventi quali psicoterapia e rieducazione saranno efficaci. «L’ideale sarebbe poter intervenire entro i due anni, quando il nostro cervello è al suo massimo in termini di plasticità e responsività agli stimoli, interni ed esterni. Per esempio, sono in corso studi per mettere a punto criteri diagnostici già nei primi mesi di vita del bambino, sulla base per esempio dell’analisi del pianto, dello sguardo, del confronto del comportamento rispetto ai fratelli sani. La multidisciplinarietà è essenziale di fronte a una patologia così complessa: oggi abbiamo a disposizione tantissimi strumenti di diagnostica avanzata, dalle tecniche di sequenziamento di nuova generazione a sofisticate tecniche di elettroencefalogramma o risonanza magnetica funzionale, ma parallelamente è importante una stretta collaborazione con i colleghi clinici che seguono questi pazienti nel tempo e ne conoscono a fondo il comportamento. Ancora una volta, il lavoro di squadra è tutto».