Un modello 3D per studiare la relazione tra Alzheimer e Herpes: modello tridimensionale di cellule staminali neurali messo a punto da ricercatori USA
Arriva una nuova spiegazione del possibile legame tra l’infezione da virus Herpes e l’insorgenza della malattia di Alzheimer. A maggior ragione adesso che, con la pandemia COVID-19 in corso, i virus sono divenuti argomento di interesse mondiale. È noto quanto lo spettro delle manifestazioni cliniche dell’infezione da Herpes simplex sia vario: comprende sia le classiche lesioni cutanee o delle mucose boccali sia, nelle varianti più gravi, encefaliti o meningiti. La necessità di studiare questi casi più severi ha, infatti, reso necessario elaborare un modello cellulare che consentisse di valutare quale relazione vi fosse tra le conseguenze dell’infezione da Herpesvirus a livello del sistema nervoso e la malattia di Alzheimer.
ALZHEIMER E HERPES
Sono proprio i casi d’infezione più severi a costituire l’oggetto dell’attenzione di un gruppo di studiosi americani, i quali sono partiti dal presupposto che la malattia di Alzheimer abbia un’insorgenza giovanile (un esempio del fenomeno è perfettamente raccontato nel film Still Alice, con Julianne Moore) solo in una percentuale variabile tra l’1 e il 6% dei casi: in queste circostanze la componente genetica è ovviamente dominante. Ma nella grande maggioranza dei casi rimanenti la malattia si presenta su base sporadica e, in questi casi, identificare una precisa eziologia rimane molto difficile. Ciononostante, tra le diverse cause che si suppone possano contribuire alla formazione delle placche amiloidi tipiche della patologia c’è anche quella delle conseguenze di un’infezione virale scatenata da organismi come Chlamydophila pneumoniae, Borrelia burgdorferi e Candida glabrata. Queste infezioni, negli individui più anziani o immunocompromessi, potrebbero gettare le fondamenta per l’avvio di un processo neurodegenerativo in grado di sfociare nella demenza da Alzheimer.
In particolare è stato visto come un’infezione acuta da virus Herpes simplex di tipo 1 (HSV-1) che si concretizzi in una grave encefalite, intacchi le stesse aree del cervello danneggiate dalla malattia di Alzheimer, producendo anche una sintomatologia simile, sia per quel che riguarda le manifestazioni cognitive che comportamentali. È esattamente da questa osservazione che prende le mosse lo studio americano, i cui risultati sono stati pubblicati lo scorso 6 maggio sulle pagine della rivista Science Advances, nel quale i ricercatori guidati dal prof. David L. Kaplan, del Dipartimento di Ingegneria Biomedica della Tufts University di Medford (Massachussets), hanno messo a punto un modello tridimensionale di cervello umano che poi hanno esposto all’infezione da HSV-1.
LO STUDIO STATUNITENSE
Nello specifico, il gruppo di ricerca ha fatto ricorso a una tecnica grazie alla quale è stato possibile riprogrammare cellule somatiche quali i fibroblasti della pelle di pazienti affetti da malattia di Alzheimer, trasformandoli in cellule staminali neurali indotte (iNSC) che, in modo spontaneo, si sono a loro volta differenziate rapidamente in cellule neuronali e della glia. Favorendone la crescita in coltura con degli appositi “scaffold” (delle impalcature artificiali in grado di sostenere la formazione di tessuti tridimensionali), i ricercatori hanno ottenuto un modello 3D di cervello umano, non più grande di 6 mm, composto da cellule neurali che si sono differenziate in neuroni. Con gli assoni che si estendevano nella parte centrale di una sorta di ciambella di cellule essi sono riusciti ha ricreare le connessioni neuronali e hanno dato vita a un modello nel quale era compresa sia la materia grigia che la sostanza bianca del nostro cervello. Dotati di un tale preciso strumento d’indagine gli scienziati statunitensi lo hanno esposto all’infezione con il virus HSV-1 e, grazie a sofisticate tecniche di imaging e ai test biochimici, hanno studiato in tempo reale i cambiamenti, sia da un punto di vista fisico che biologico, che avvenivano nei neuroni. Inoltre, i ricercatori sono stati anche in grado di monitorare l’attività elettrica e l’integrità delle reti di comunicazione tra le cellule.
Il primo risultato evidenziato è che alti livelli di infezione conducono a morte cellulare mentre un’infezione con una carica virale più bassa induce la formazione di strutture amiloidi, la perdita di neuroni e uno stato di infiammazione diffuso – caratterizzato dall’aumento di Interleuchina 1-beta (IL-1Beta), Interleuchina 6 (IL-6) e interferone gamma – con una diminuzione della funzionalità neuronale raffrontabile a quella evidenziata nella malattia di Alzheimer. A questo punto i ricercatori hanno cercato di capire se la somministrazione di un farmaco antivirale, come Valacyclovir che è approvato per il trattamento delle infezioni da virus Herpes simplex, potesse essere in grado di diminuire l’entità di tali manifestazioni cliniche. Le analisi di immunoistochimica e di biologia molecolare hanno confermato la riduzione della formazione di placche simili a quelle amiloidi e dello stato di neuroinfiammazione. Infine, i ricercatori hanno osservato l’espressione di più geni correlati alla malattia di Alzheimer tra cui APP, BACE1, PSEN1 e PSEN2. Essi hanno concentrato la loro analisi su 40 geni sovraregolati soffermandosi, in particolar modo, sul ruolo di BACE2 e del gene per la catepsina G (CTSG) che sono coinvolti nella produzione di proteine beta amiloidi responsabili della formazione delle placche.
Questo non è il primo lavoro a suggerire la correlazione tra alcune infezioni virali – e quella suscitata dal virus dell’Herpes simplex è una delle principali – e la malattia di Alzheimer. Non è neppure il primo che ricorra a tecnologie innovative per studiare in maniera approfondita questa devastante malattia neurodegenerativa e cercare di mettere a punto una strategia terapeutica. Tuttavia, è il primo a proporre un modello di studio tridimensionale della malattia nel quale sono considerati fattori ambientali – quali un’infezione virale – nella genesi di una forma sporadica, che tende a insorgere specialmente in età tardiva. Oltre a fornire maggiori elementi circa i possibili fattori di rischio, lo studio americano apre la strada anche alla ricerca di soluzioni terapeutiche per arrestare o, perlomeno, rallentare l’evoluzione della malattia.
Tutto ciò necessiterà ovviamente di conferme e di ulteriori approfondimenti ma la realizzazione di modelli cellulari tridimensionali a base di cellule staminali si sta confermando un’inestimabile strumento di ricerca per un numero crescente di patologie la cui origine ha ancora zone d’ombra.