Sempre più studi osservano una correlazione tra i livelli di inquinamento atmosferico e i numeri dell’epidemia COVID-19. Uno studio del San Raffaele prova spiegarne il meccanismo
Diversi studi suggeriscono che tra le aree geografiche maggiormente colpite dalla pandemia di COVID-19 a livello mondiale (sia in termini di diffusione del virus che in termini di gravità dei sintomi e prognosi della malattia) ci siano quelle con il più alto tasso di inquinamento atmosferico.
Sappiamo che l’inquinamento atmosferico ha un ruolo nell’esacerbazione di diverse malattie infettive e croniche del tratto respiratorio. Ma è così anche per COVID-19? E se sì, attraverso quale meccanismo?
Uno studio del San Raffaele, appena pubblicato sul Journal of Infection, indaga il fenomeno in Italia e propone per la prima volta un meccanismo biologico in grado di spiegare il ruolo dell’inquinamento atmosferico.
Lo studio è stato coordinato da Antonio Frontera, cardiologo dell’Unità di Aritmologia ed Elettrofisiologia Cardiaca, e George Cremona, primario del servizio di Pneumologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
Cos’è il particolato atmosferico e perché fa male
L’inquinamento atmosferico è caratterizzato dal particolato, l’insieme delle cosiddette polveri sottili presenti nell’aria che respiriamo ogni giorno. A seconda del loro diametro (che può anche essere inferiore ai 2,5 millesimo di millimetro), queste particelle sono in grado di penetrare a diverse profondità dell’apparato respiratorio, danneggiando i tessuti e indebolendo le difese immunitarie.
Come conseguenza, è stato dimostrato che l’esposizione cronica al particolato, anche a bassi livelli, è associata a maggiore incidenza e maggior gravità di diverse malattie:
- respiratorie croniche (asma, bronchite, tumori polmonari);
- infettive (per esempio, l’influenza).
L’insieme di questi fenomeni rende l’inquinamento atmosferico responsabile, secondo il nuovo report sulla qualità dell’aria in Europa da parte dell’European Environment Agency (EEA), di oltre 370.000 morti premature all’anno.
Il potenziale legame tra particolato e COVID-19
Il team di ricercatori del San Raffaele ha analizzato il numero dei ricoveri di pazienti Covid in terapia intensiva in tutta Italia e il relativo tasso di mortalità, correlando questi dati con i livelli di inquinamento atmosferico nelle diverse regioni, in particolare la concentrazione di PM2.5 (il particolato più fine e pericoloso) nel mese di febbraio 2020, poco prima dello scoppio dell’epidemia.
I dati sulla popolazione sono stati forniti dalla Protezione Civile (aggiornati al 31 marzo 2020), mentre quelli relativi alle emissioni di inquinanti atmosferici provengono dal servizio Air-matters, che raccoglie dati di inquinamento da tutto il mondo.
“Secondo i risultati dello studio le regioni più colpite sono quelle che hanno un livello più alto di particolato: prima fra tutti la Lombardia, con 35 microgrammi per metro cubo di PM2.5, oltre 43.000 casi e 7.000 morti, seguita da Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, e così via a scendere,” spiega George Cremona.
In letteratura, tale disparità geografica nel numero dei casi viene spiegata sulla base del fatto che l’elevato livello di inquinanti può in qualche modo favorire la trasmissione aerea del virus, allungando la distanza minima necessaria per il contagio.
“L’idea che il particolato possa funzionare da trasportatore per virus e batteri è già stato suggerito in passato e ora viene ipotizzato anche per SARS-CoV-2, ma è tutto da dimostrare” specifica Frontera, primo autore dello studio.
L’ipotesi, però, non spiegherebbe l’alto tasso di mortalità nella aree più inquinate, solo il maggior numero di infetti. Un fenomeno osservato anche negli Stati Uniti da un gruppo di Harvard, la cui ricerca è però ancora in attesa di pubblicazione e non è quindi stata sottoposta a peer-review.
L’ipotesi sul ruolo dell’inquinamento atmosferico
Per spiegare i risultati di incidenza e mortalità di COVID-19 nelle aree più inquinate i ricercatori del San Raffaele hanno avanzato un’ipotesi innovativa, che prevede due meccanismi congiunti.
Il primo meccanismo mira a spiegare perché le popolazioni più esposte ad inquinamento sono quelle in cui si è registrato il maggior contagio e si basa sul fatto, già dimostrato in laboratorio sui topi, che l’esposizione cronica al particolato PM2.5 è associata a una iper-espressione polmonare di ACE-2, il recettore noto per essere “la chiave di accesso” del nuovo coronavirus nelle nostre cellule.
L’ipotesi è che questa sovra-espressione del recettore di accesso renda più facile infettarsi a parità di carica virale e, a seconda della quantità di recettori ACE-2 presenti, possa essere responsabile di forme poco sintomatiche fino alle forme di malattia più grave.
Il secondo meccanismo ipotizzato, sul quale però non ci sono evidenze al momento, potrebbe invece spiegare l’elevata mortalità nelle zone più inquinate ed è legato alla presenza di alti livelli di biossido di azoto, NO2, un altro inquinante gassoso presente in atmosfera.
“Come è noto nella pratica clinica infatti, un’intossicazione da NO2 è caratterizzata da sintomi simili a quelli delle forme gravi di COVID-19 – spiega Frontera -.
La nostra ipotesi è che gli effetti di alti tassi di N02, anche se non equivalenti a un’intossicazione, possano sommarsi all’azione infiammatoria dovuta al virus, rendendo la manifestazione della malattia più aggressiva. Si tratta solo di un’ipotesi per ora, che andrà confermata da successivi studi.”