Cheratite neurotrofica, l’incredibile storia del collirio che “ripara” la cornea: una scoperta da Premio Nobel e la scommessa vincente di una società italiana
Che cosa lega tra loro una proteina che regola la crescita dei neuroni, un’ulcera della cornea e una casa farmaceutica italiana molto impegnata nella ricerca contro le malattie rare? Quello che all’apparenza può sembrare il rebus degno di un settimanale di enigmistica è, invece, uno dei più entusiasmanti successi della storia della medicina moderna, che si è tradotto nell’approvazione di un farmaco fondamentale per il trattamento della cheratite neurotrofica. A ripercorrere questa straordinaria vicenda, che parte una scoperta vincitrice del Premio Nobel, è uno dei suoi principali protagonisti: Paolo Rama, professore di Oftalmologia all’Università Vita-Salute del San Raffaele e primario dell’Unità di Oculistica, Cornea e Superficie Oculare presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
IL PRIMO CASO
“Nel 1996, mentre prestavo servizio presso l’Ospedale Civile S.S. Giovanni e Paolo di Venezia, giunse in reparto una bambina di 9 anni con un’ulcera neurotrofica in un occhio”, esordisce il prof. Rama. “Il problema era che quello era l’unico occhio vedente, perché la bambina aveva già perduto l’altro”. La piccola, infatti, si era ferita accidentalmente tempo prima, giocando col fratellino: essendo nata con un’agenesia del nervo trigemino, era totalmente insensibile al dolore e, avendo trascurato la lesione, era incorsa in un’infezione che aveva finito per comprometterle un occhio. “Con un’ulcera e un rischio di perforazione nell’unico occhio vedente, la minaccia era quella della cecità”, prosegue Rama. “Inoltre, ricoprire l’ulcera corneale con la congiuntiva, per preservare il bulbo oculare, avrebbe significato rendere non-vedente la bambina”. La situazione era perciò drammatica, e bisognava decidere cosa fare.
IL FATTORE DI CRESCITA NERVOSO
“In quel periodo – prosegue Rama – presso il nostro reparto svolgeva servizio un giovane medico, il dott. Alessandro Lambiase [oggi professore presso la U.O.C. di Oculistica, DAI Testa Collo del Policlinico Umberto I di Roma, N.d.R.], che conduceva la sua attività di ricerca presso l’Istituto di Neurobiologia del CNR di Roma e che è stato uno degli ultimi allievi di Rita Levi Montalcini, la scopritrice del fattore di crescita nervoso (NGF)”. L’NGF è una proteina regolatrice che favorisce la sopravvivenza dei neuroni sensoriali derivati dalla cresta neurale e dei neuroni simpatici. Viene prodotta proprio dai tessuti innervati da tali neuroni: maggiore è la sua quantità, maggiore è la crescita dei neuroni. Per la scoperta e la caratterizzazione dell’NGF, nel 1986 Rita Levi Montalcini è stata insignita del Premio Nobel per la Medicina, alla consegna del quale dichiarò che ciò che si sapeva di questa proteina era solo la punta di un iceberg, il cui volume sommerso era ancora molto esteso. In effetti, per molti anni, l’NGF è stato studiato in relazione a malattie del sistema nervoso centrale, come l’Alzheimer o il Parkinson, mentre poco si sapeva del suo ruolo nell’ambito dell’apparato visivo.
“Lambiase mi mise a parte delle sue ricerche e propose un trattamento a base di NGF per l’ulcera corneale della bambina ricoverata”, riferisce Rama. “Ovviamente, il mio primo interesse era la sicurezza della terapia e invitai Lambiase a spiegarmi tutto nel dettaglio. Una volta che fu stabilito il razionale di questo utilizzo, che fu garantita la sicurezza della procedura e fu ottenuto il consenso dei genitori della bimba, esponemmo il caso al dott. Luigi Aloe, allora braccio destro della prof.ssa Montalcini, e ci facemmo spedire un campione di NGF liofilizzato, di estrazione murina, con cui preparammo un collirio. Iniziammo a instillare le gocce di questo collirio nell’occhio della piccola e, giorno dopo giorno, l’ulcera iniziò a migliorare, sino a chiudersi nell’arco di una decina di giorni. La bambina recuperò la vista e non ebbe mai alcuna recidiva”.
LO STUDIO
Lo strabiliante esito di questa operazione indusse i medici dell’ospedale veneziano a testare il collirio su una più ampia casistica di pazienti e, una volta arrivati a 12, scrissero un articolo con i risultati del loro studio che inviarono al New England Journal of Medicine, una delle più note riviste scientifiche al mondo, la quale lo accettò immediatamente riservando alla tematica anche un entusiastico editoriale. “Siamo rimasti in silenzio per circa otto mesi, perché volevamo avere la certezza che quello che avevamo fatto non era stato ottenuto per caso”, precisa Rama. “Come medici siamo consci di avere delle responsabilità nei confronti dei malati e ci siamo attenuti a una stretta metodologia scientifica, indagando un razionale valido e assicurandoci di poterlo fare nel rispetto della sicurezza dei pazienti. Ognuno di noi si è preso la sua responsabilità e abbiamo tagliato un traguardo inimmaginabile”.
LA SCOMMESSA DI UNA SOCIETA’ ITALIANA
A quel punto, la parte difficile era trovare una casa farmaceutica che credesse in questa ricerca e fosse pronta ad investire nella produzione del collirio. L’unica che decise di accettare la sfida fu Dompè, un’azienda italiana il cui allora Amministratore Delegato, Eugenio Aringhieri, convinse il Presidente, Sergio Dompè, a credere nelle potenzialità di questo approccio innovativo. “Il nostro era uno studio iniziale, in aperto, senza controllo, su una proteina di estrazione animale”, continua Rama. “Solitamente, prima di investire in un nuovo farmaco, le multinazionali vogliono garanzie e aspettano di vedere i risultati degli studi clinici di Fase I e II. Dompè e Aringhieri hanno avuto molto coraggio e hanno creduto nel potenziale terapeutico di quello che avevamo scoperto, tanto che oggi abbiamo un farmaco innovativo per il trattamento di una malattia rara come la cheratite neurotrofica”. Infatti, nel 2017, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha raccomandato l’approvazione del collirio cenegermin (nome commerciale Oxervate®) per la terapia di pazienti adulti con cheratite neurotrofica da moderata a grave. Più tardi, il farmaco di Dompè è stato autorizzato anche in altri Paesi, tra cui Stati Uniti, Canada e Israele.
PASSIONE, IMPEGNO E CORAGGIO
“Ritengo che un messaggio importante di questa storia sia quello di essere riusciti a fondere la ricerca di base con la ricerca clinica”, precisa Rama. “Spesso, il ricercatore di base parla un linguaggio diverso da quello del clinico e scoperte importanti non trovano applicazione perché manca questo collegamento. Oggi, grazie all’NGF, possiamo trattare la cheratite neurotrofica, una grave e rara malattia corneale che era priva di terapia. Rita Levi Montalcini aveva ragione quando, parlando della sua scoperta, diceva che era solo la punta dell’iceberg, e che c’era ancora molto da esplorare. Questa proteina regolatrice, infatti, potrebbe riservarci altre sorprese. Il suo meccanismo d’azione è complesso e l’NGF è presente in tutti tessuti e gli organi del nostro corpo, per cui potrebbe avere applicazioni in diversi settori della medicina: il tempo ci darà le risposte”.
Spesso, per fare qualcosa di veramente nuovo occorre avventurarsi su strade mai battute prima, ma bisogna poterlo fare senza abbandonare la solidità dei criteri scientifici e, soprattutto, nel pieno rispetto della sicurezza dei malati, soprattutto quando questi versano in gravi condizioni. “In questo specifico caso – conclude Rama – ci è concesso di essere anche un po’ romantici. È quasi commovente che questa sia una storia che riunisce le ricerche di una donna vincitrice del Premio Nobel, di un’equipe oftalmologica e di una casa farmaceutica tutte italiane”.