Sulle giganti rosse le macchie stellari sono più comuni di quanto si pensasse. A dirlo è uno studio guidato dal Max Planck Institute for Solar System Research
Sono gigantesche, scure e con temperature di quasi duemila gradi inferiori rispetto alle regioni vicine. Sono le macchie solari (sunspot, in inglese), una tra le caratteristiche superficiali più sorprendenti della nostra stella: l’espressione dei forti campi magnetici prodotti nel suo cuore per effetto di un processo, chiamato dinamo, che richiede movimenti convettivi del plasma e rapida rotazione dell’astro intorno al proprio asse. Queste chiazze scure – la cui frequenza di apparizione segue un ciclo undecennale, e delle quali il Sole in questi giorni è privo – si osservano anche in numerose altre stelle. Si parla in questi casi di macchie stellari, o starspots, e sono presenti soprattutto in stelle che, come il Sole, sono nel pieno della loro fase evolutiva. Nelle giganti rosse (stelle che si trovano invece in uno stadio avanzato della loro evoluzione), invece, macchie simili erano considerate rare. Erano, appunto. Perché stando a uno studio condotto da un team di ricercatori guidati dal Max Planck Institute for Solar System Research, in Germania, in queste stelle le macchie sarebbero in realtà più comuni di quel che si pensa.
Passando al setaccio le curve di luce di circa 4500 giganti rosse osservate dal telescopio spaziale Kepler della Nasa dal 2009 al 2013, il team ha infatti trovato che 370 di esse, pari a circa l’8 per cento del campione esaminato, mostrano macchie stellari.
Ma se, come abbiamo detto in apertura, a produrre queste regioni scure concorre anche la rapida rotazione della stella intorno al proprio asse, come è possibile che anche le giganti rosse, la cui rotazione si pensa sia piuttosto lenta, siano coperrte di macchie stellari?
«Per rispondere a questa domanda abbiamo dovuto determinare quante più proprietà possibili delle stelle e metterle insieme per avere un quadro generale», osserva Patrick Gaulme del Max Planck Institute, primo autore dell’articolo pubblicato su Astronomy & Astrophysics che riporta i risultati della ricerca. All’Opache Point Observatory nel New Mexico (Usa), ad esempio, i ricercatori hanno studiato come le lunghezze d’onda della luce emessa da alcune giganti rosse cambino nel tempo. Ciò ha consentito di ottenere indicazioni esatte sul loro movimento. La conclusione degli astronomi è che, sebbene le giganti rosse siano generalmente stelle a rotazione lenta, quelle che presentano macchie stellari ruotino rapidamente, rappresentando dunque un’eccezione alla regola.
La domanda a questo punto è: cosa imprime a queste stella la rapida rotazione necessaria ad alimentare la dinamo che produce le macchie stellari?
Le loro analisi hanno rivelato che circa il 15 per cento delle 370 giganti rosse studiatefa parte di un sistema binario, costituito dalla gigante rossa stessa e da una compagna più piccola e meno massiccia. «In tali sistemi, le velocità di rotazione di entrambe le stelle si sincronizzano nel tempo fino a quando non ruotano all’unisono, come una coppia di pattinatori» spiega il ricercatore. In questo modo, la gigante rossa, a lenta rotazione, guadagna quantità di moto e gira più velocemente di quanto avrebbe fatto senza una compagna.
Il rimanente 85 per cento non faceva però parte di alcun sistema binario. Eppure erano anch’esse in rapida rotazione. I ricercatori avanzano due ipotesi. La prima, che riguarda stelle con una massa simile al Sole, è che queste abbiano acquisito velocità di rotazione in seguito alla fusione con un’altra stella o con un pianeta nel corso della loro evoluzione.
Uno sviluppo evolutivo diverso è invece la seconda ipotesi. In questo caso, stelle con masse due o tre volte superiori al Sole potrebbero essere andate incontro a un percorso evolutivo tale per cui la loro velocità di rotazione probabilmente non è mai rallentata in modo significativo. E ora che sono allo stadio di giganti rosse ruotano ancora quasi alla stessa velocità di quando erano giovani, spiegano i ricercatori.
«Complessivamente, dietro la comune caratteristica osservativa delle macchie in alcune giganti rosse troviamo tre gruppi di stelle in rapida rotazione, per ognuno dei quali la rapidità ha una spiegazione diversa. Non c’è quindi da meravigliarsi che il fenomeno sia più diffuso di quanto si pensasse in precedenza», sottolinea Gaulme.
Studi come questo sono importanti per far luce, tra le altre cose, sull’evoluzione della rotazione e dell’attività magnetica nelle stelle e sulla loro complessa interazione, compreso l’impatto sull’abitabilità dei sistemi planetari che possono ospitare. Questi sono tra gli principali obiettivi della missione Plato dell’Esa, il cui lancio è previsto entro la fine del 2026. «Non vediamo l’ora che la missione Plato sia nello spazio», aggiunge Federico Spada, ricercatore al Max Planck Institute, insieme a Cilia Damiani uno dei due co-autori italiani della pubblicazione. «Con le sue osservazioni uniche di lunga durata saremo in grado di estendere lo studio ad altre regioni della Via Lattea».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Active red giants: close binaries versus single rapid rotators” di Patrick Gaulme, Jason Jackiewicz, Federico Spada, Drew Chojnowski, Benoit Mosser, Jean McKeever, Anne Hedlund, Mathieu Vrard, Mansour Benbakoura e Cilia Damiani