Tumore fibroso solitario: bene pazopanib


Tumore fibroso solitario, risultati incoraggianti dall’impiego di pazopanib: il farmaco è stato testato in fase II per le forme aggressive della malattia

Tumore fibroso solitario, risultati incoraggianti dall’impiego di pazopanib: il farmaco è stato testato in fase II per le forme aggressive della malattia

Secondo “L’arte della guerra”, di Sun Tzu, lo stratega abile deve operare in modo tale da tagliare i contatti tra l’avanguardia e le retroguardie della colonna nemica, impedendo in tal modo il dialogo e la collaborazione tra il cuore delle truppe e i contingenti più piccoli. Questo consiglio è stato preso in seria considerazione dai medici che si avvalgono dei farmaci anti-angiogenici per contrastare il cancro: lo dimostra l’articolo pubblicato sulla rivista The Lancet Oncology, nel quale la validità di questa categoria di molecole è stata oggetto di test contro il tumore fibroso solitario.

L’angiogenesi è quel processo attraverso cui i tumori possono formare nuovi vasi sanguigni o vie linfatiche per ottenere i nutrimenti necessari e continuare a propagarsi all’interno dell’organismo. Nel tentativo di arrestare la crescita del tumore, medici e ricercatori si sono focalizzati, negli anni, sulla possibilità di tagliare letteralmente le sue vie di approvvigionamento, e hanno sviluppato molecole capaci di bloccare quelle proteine, denominate fattori di crescita, che permettono la formazione dei nuovi vasi. In quest’ottica, un gruppo internazionale di ricerca, del quale ha fatto parte anche il prof. Paolo Casali, direttore dell’Oncologia Medica 2 presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano, ha concentrato la sua attenzione sul possibile impiego del farmaco pazopanib contro il tumore fibroso solitario, una rara forma di sarcoma dei tessuti molli.

I ricercatori hanno disegnato e realizzato uno studio clinico di Fase II a braccio singolo, condotto su pazienti adulti (al di sopra dei 18 anni) con una diagnosi di tumore fibroso solitario metastatico o non operabile chirurgicamente. I pazienti con un tumore che, nella sua forma maligna o in quella più aggressiva (detta dedifferenziata), risultava in progressione, sono stati arruolati per lo studio presso sedici centri con lunga esperienza nell’ambito dei sarcomi, presenti in Spagna, Italia e Francia. I pazienti che erano già stati sottoposti a trattamento con farmaci anti-angiogenici o alla radioterapia sono stati esclusi dalla sperimentazione, mentre sono stati inclusi coloro che avevano parametri cardiaci, renali ed epatici adeguati.

Complessivamente, 36 pazienti con tumore fibroso solitario sono stati sottoposti a trattamento con pazopanib, un inibitore delle tirosin chinasi a somministrazione orale che agisce sul recettore del fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGFR) e che, nei modelli animali, si è rivelato in grado di inibire l’angiogenesi tumorale. Il primo obiettivo dello studio consisteva nel valutare, tramite i criteri di Choi, il numero di pazienti in grado di raggiungere una risposta completa o parziale alla terapia con pazopanib. A questo ha fatto seguito la valutazione della sopravvivenza libera da progressione di malattia (PFS), della sopravvivenza totale e del beneficio clinico. Infine, i ricercatori hanno guardato anche al profilo di sicurezza del farmaco.

L’analisi radiologica eseguita ha mostrato che 18 (51%) pazienti, su 35 valutabili, hanno avuto una risposta parziale al trattamento e 9 (26%) hanno evidenziato una stabilizzazione del tumore; in altri 8 (23%) pazienti, la malattia, secondo i criteri di Choi, è risultata ancora in progressione. Ad un follow-up mediano di 27 mesi, in 32 casi è stata osservata una progressione di malattia e 10 pazienti sono morti. La sopravvivenza libera da progressione di malattia è risultata, in media per tutti i 36 pazienti, di 5,57 mesi: in particolare, in coloro che hanno risposto alla terapia, la PFS è stata di 8,47 mesi, contro i 3,53 mesi di quelli che non hanno avuto risposta. Il profilo di sicurezza del farmaco si è rivelato buono: gli eventi avversi di grado 3 maggiormente riscontrati sono stati l’ipertensione e la neutropenia, mentre in diversi casi è stato osservato un rialzo dei valori delle transaminasi epatiche e della bilirubina.

A queste valutazioni, gli studiosi hanno accompagnato un’analisi di espressione genica, confrontando i pazienti sulla base della sopravvivenza libera da progressione di malattia ed evidenziando il valore prognostico di due geni, ISG15 e BCL2. Un’elevata espressione di ISG15 è risultata associata a una peggiore PFS (1,7 contro 7,1 mesi) e a una peggior sopravvivenza globale a due anni (20% contro 86% dei pazienti); al contrario, un’elevata espressione di BCL2 è stata correlata a una migliore PFS (7,1 contro 3,7 mesi) e a una miglior sopravvivenza globale a due anni (85% contro 34% dei pazienti).

Non è semplice realizzare studi clinici con questa architettura che coinvolgano un sufficiente numero di pazienti affetti da forme tumorali tanto rare (l’incidenza del tumore solitario fibroso è inferiore a un caso su un milione di nati) ma l’operazione svolta dai ricercatori italiani, francesi e spagnoli ha messo indubbiamente in evidenza lo spettro di attività di pazopanib nel trattamento delle forme maligne di tumore solitario fibroso. Nella stragrande maggioranza dei casi, questa neoplasia si manifesta in forma localizzata, facendo della chirurgia la forma d’intervento d’elezione, ma il pregio di questo studio è quello di aver guardato alle forme maligne in progressione, confermando la possibilità di un percorso terapeutico che preveda l’uso di farmaci anti-angiogenici e suggerendo, quindi, la realizzazione di ulteriori studi di approfondimento.