Il Covid19 spariglia le carte dell’autodramma recitato dagli abitanti del paesino della Val d’Orcia. Si cambia formula ma si va in scena lo stesso, non più sul palco ma tra le strade del borgo
E così il Covid19 ha sparigliato le carte anche al teatro povero di Monticchiello. Normale, si dirà. Inevitabile. Dopo quasi tre mesi di isolamento vissuti in tutto il Paese, dalle Alpi ai templi di Agrigento, perché mai quest’esperienza che ha scombussolato le nostre vite non avrebbe dovuto segnare anche una delle espressioni più significative del teatro popolare. Un teatro agìto proprio dal popolo, dagli abitanti di questo piccolo borgo della Val d’Orcia che da quasi sessant’anni mettono in scena loro stessi e le loro ambizioni e frustrazioni, le loro voglie e lamentazioni. Il tema per questa nuova edizione era già stato scelto dall’anno scorso, durante le assemblee che i monticchiellesi fanno durante l’anno per mettere a punto il proprio autodramma (come l’ha definito Giorgio Strehler): la vecchia torre del paese che è diventata pubblica. Poi la contemporaneità ci ha messo il suo carico, ed è diventato indispensabile anche per gli abitanti confrontarsi con il virus. E intendiamoci, in questa nuova edizione “Isole d’istanti” (in scena fino al 15 agosto ogni sera per 4 turni a partire dalle 20.40, biglietti praticamente esauriti) lo fanno in modo arguto. Raccontando l’impatto della temuta epidemia sulla vita quotidiana di un minuscolo paese. Adeguandosi alle norme che disciplinano gli eventi pubblici e cambiando quindi completamente la forma. Via la piazza con il classico palco e le poltrone sedute ad assistere. Adesso il pubblico, in gruppi di 15 persone, cammina attraverso l’antico borgo dove si imbatte negli abitanti attori che raccontano le loro storie, quotidiane e passate. Fantasmi di oggi e fantasmi di ieri.
I registi Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli hanno pensato alla drammaturgia come a una pièce itinerante attraverso tredici tappe dentro le mura, tappe che loro definiscono isole, una sorta di via crucis tra personaggi attuali che vivono l’oggi e i fantasmi di un piccolo mondo antico che non c’è più.
I primi che incontriamo sono gli armigeri, sulle mura che proteggono il paese, di guardia contro il flagello, evanescente ma anche concreto. “Ancora presente, magari nascosto nei boschi? Forse sparito definitivamente?” riflettono i due, circospetti, mentre il pubblico da sotto li osserva. Le guardie passano poi a leggere decreti ministeriali e circolari regionali e comunali, un ridda infinita e indigesta di regole e prescrizioni sulla sanità e gli atteggiamenti da tenere che richiama provvidamente la nostra attualità ma anche certe grida cinquecentesche di manzoniana memoria, senza nemmeno la consolazione di un Azzeccagarbugli qualsiasi a farci da Virgilio. Noi che assistiamo alla rappresentazione, ci spiegano, non siamo “spettatori”, bensì, secondo le disposizioni ministeriali, “turisti”, e solo in quanto tali autorizzati a goderci lo spettacolo.
Non mancano i bambini, vere vittime del periodo di isolamento, costretti alle lezioni online, e magari non tutti hanno il computer o genitori capaci di farlo funzionare, pronti a inventarsi giochi nuovi come “virus”. Si salutano con il gomito. E notano con saggezza: “Prima ti dicono di starnutire nel gomito e poi ti saluti col gomito, bella idea!”.
L’oggi è anche la promessa sposa che per paura del contagio ha deciso di annullare le nozze, mentre il futuro marito e un amico di lui cercano di farla ragionare. E il promotore finanziario che presenta l’International Bank della Val d’Orcia, i Bot delle Crete, i Future Gran Riserva 2020, ma anche gli ecologisti dell’ultimo minuto, quelli appassionati di bio che fanno l’orto ma poi abbandonano plastica e guanti monouso un po’ dove capita. Mentre il passato è anche il padrone latifondista del 1920, che riceve i contadini per fare i conti, implacabile con chi sgarra di qualche lira, anche di fronte a una famiglia piegata dall’epidemia di spagnola e a un marito che per pagare il dottore per la moglie ha sacrificato le poche lire dovute al padrone. Storie di ieri che rammentano anche l’oggi. Struggente la scena della scuola di campagna di Monticchiello, giovedì 9 marzo 1950 c’è scritto col gessetto sulla lavagna, con tre scolari e un maestro che da burbero si rivela di grande umanità, mentre cerca di strappare all’ignoranza questi allievi esuberanti. Ancora il sindaco che cerca di realizzare una diretta Facebook con sarta e truccatrice, e una piccola banda improvvisata che si muove sulle note di una musica che diventa un valzer, mentre si cerca di capire il discrimine tra l’osservazione pedissequa delle prescrizioni anti Covid e l’ignorarle, con i rischi che ne conseguono.
Con un effetto un po’ di spaesamento, di scena in scena si passa dall’oggi al passato, come in una macchina del tempo che rotola tra le pietre millenarie del borgo, che in effetti ci si gode pietra per pietra, casa per casa. Ma in effetti lascia qualche perplessità questa nuova formula ibrida che cerca un innesto tra l’ossatura tradizionale di questa drammaturgia che compie 54 anni, legata ai temi della tradizione (lo svuotamento delle campagne, la scarsità di lavoro, il confronto con il mondo esterno, la povertà delle campagne), e il tema del nemico invisibile, immateriale ma dagli effetti potenzialmente devastanti con il quale tutti noi conviviamo dai primi di marzo, e che, va detto, ha un po’ stancato per quanto ci ha risuonato e ci risuonerà ancora nelle orecchie. Creando appunto una serie di scene, le “isole d’istanti” che recita il titolo, che a volte suonano anche come “isole distanti”, un po’ slegate nella drammaturgia.
La scena finale ci porta nella piazza dove solitamente è allestito il palco, sgombra di luci e di suoni, qualche macchina parcheggiata e un piccolo palco, sul quale svetta una porta chiusa con accanto un’attrice, davanti a lei una sedia vuota. Spaesata, parla a qualcuno che non vediamo, racconta di spettacoli a rischio di cancellazione, poi cambiati nella struttura, sorride verso il futuro e la speranza. Aprendo la porta sul palco ci invita ad uscire uno per uno, in silenzio.