Negli Stati Uniti generati organoidi che riproducono la complessità della pelle umana partendo da cellule staminali pluripotenti umane
Se avete visto il film di Pedro Almodovar “La pelle che abito” probabilmente non avrete dimenticato la situazione grottesca intorno a cui ruotava la trama del film, ma se vi concentrate in particolare sul ruolo del protagonista ricorderete che si trattava di un medico impegnato nello studio della pelle, anzi nella ricerca di un modo per sintetizzare una pelle artificiale. Nell’articolo pubblicato a inizio giugno sulle pagine della rivista Nature, il prof. Karl R. Koehler e il suo gruppo di ricerca sono riusciti nella medesima impresa del protagonista del film, ricreando la pelle umana a partire dalle cellule staminali. E senza le stravaganti finalità messe in opera nella pellicola.
A differenza di ciò che si pensa la pelle è un organo estremamente difficile da produrre in laboratorio: oltre ad essere l’organo umano di maggiori dimensioni – ha un’estensione totale che raggiunge i due metri quadrati – è estremamente sottile ed è composta da diversi tipi cellulari. Ci sono i fibroblasti che rappresentano le strutture di supporto, le cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni attraverso cui giunge il nutrimento e l’ossigeno, per non parlare delle fibre nervose. Inoltre, essa comprende follicoli piliferi e ghiandole sebacee funzionalmente difficili da riprodurre in laboratorio. Insomma, ricostruire artificialmente la pelle è tutt’altro che semplice ma, proprio perché la scienza vive di sfide, ecco che la rigenerazione dei tessuti si configura come una delle più avvincenti – e soprattutto utili – innovazioni del nuovo millennio. Pertanto, lo studio pubblicato su Nature dagli scienziati dell’ Harvard Medical School di Boston offre un interessante occasione per comprendere quanta strada sia stata fatta in questa direzione.
Koehler e la sua équipe, infatti, hanno decritto nei dettagli il loro sistema di coltivazione delle cellule staminali pluripotenti di origine umana grazie al quale hanno potuto generare degli organoidi cutanei che presentavano la tipica architettura istologica della pelle: lo strato di epidermide più esterno, il connettivo sottostante comprendente il derma e lo strato sottocutaneo, i follicoli piliferi, le ghiandole e, infine, i circuiti nervosi tipici dell’epitelio umano. Un lavoro importante, che ha richiesto mesi di coltivazione delle cellule e una complessa procedura di bilanciamento dei fattori necessari a guidare la trasformazione cellulare così da permettere a un piccolo grumo informe di assumere il livello organizzativo tipico dell’epitelio umano. Un tale processo a tappe ha richiesto impegno e attenzione, e ha consentito ai ricercatori di ripercorrere tutte le fasi di sviluppo della pelle umana, restituendo un quadro dettagliato della biologia dello sviluppo del tessuto cutaneo. Ci sono voluti quasi quattro mesi per osservare i primi follicoli piliferi e per constatare che quei follicoli formatisi all’interno degli organoidi erano strutturalmente e funzionalmente sovrapponibili a quelli dei mammiferi. In aggiunta, negli organoidi prodotti dai ricercatori è stato possibile osservare oltre alla diversificazione delle strutture, una certa pigmentazione e uno specifico livello di innervazione come nelle cellule della pelle.
Alla fine, gli studiosi di Boston sono arrivati alla prova determinante per verificare la funzionalità del loro prodotto, cioè la realizzazione di un innesto in un modello animale. Dopo quasi cinque mesi di sviluppi e differenziazione hanno potuto impiantare sulla schiena dei topi gli innesti cutanei osservando che nel 55% dei casi sono spuntati peli di 2-5 mm, confermando che gli organoidi sono stati in grado di integrarsi con l’epidermide del topo e formare uno strato di pelle dotato di peli umani. Nelle loro conclusioni, i ricercatori hanno evidenziato che i follicoli piliferi dei loro organoidi presentavano un livello di maturità equiparabile a quello dei capelli di un feto al secondo trimestre di vita: un tale risultato è assolutamente incoraggiante anche se la traduzione in clinica di questa procedura appare alquanto lontana. Tuttavia, essa costituisce una straordinaria piattaforma di lancio per raggiungere nuovi traguardi nel campo dei trapianti e della rigenerazione dei tessuti.
Probabilmente sarà necessario ancora del tempo prima di poter creare una pelle sintetica simile a quella che ha prodotto il medico interpretato da Antonio Banderas nel film “La pelle che abito” ma lavori come questo e come quello che hanno per protagonisti il piccolo Hassan e il prof. Michele De Luca, del Centro di Medicina Rigenerativa dell’Università di Modena e Reggio Emilia, dimostrano che la ricerca sta procedendo sulla rotta giusta.