Il vaccino contro l’influenza e la polmonite è associato a un ridotto rischio di demenza secondo una ricerca riportata alla Conferenza internazionale dell’Alzheimer
Secondo una nuova ricerca riportata alla Conferenza internazionale dell’Alzheimer (AAIC®) 2020, le vaccinazioni contro influenza e polmonite (antipneumococcica) sono associate a un ridotto rischio di malattia di Alzheimer.
In particolare, tre studi di ricerca segnalati all’AAIC 2020 suggeriscono che:
- Almeno una vaccinazione antinfluenzale è stata associata a una riduzione del 17% dell’incidenza della malattia di Alzheimer (AD). Una più frequente vaccinazione antinfluenzale è stata associata ad un’altra riduzione del 13% dell’incidenza dell’AD.
- La vaccinazione contro la polmonite tra i 65 e i 75 anni ha ridotto il rischio di AD fino al 40% a seconda dei singoli geni.
- Gli individui con demenza hanno un rischio maggiore di morte (6 volte) dopo eventi infettivi rispetto a quelli senza demenza (3 volte).
«Con la pandemia di COVID-19, i vaccini per influenza e polmonite sono in prima linea nelle discussioni sulla salute pubblica. È importante esplorare il loro beneficio non solo nella protezione contro le infezioni virali o batteriche, ma anche nel migliorare i risultati a lungo termine sulla salute» ha dichiarato Maria C. Carrillo, direttore scientifico dell’Alzheimer’s Association. «Questa ricerca richiede ulteriori approfondimenti con vari grandi studi clinici pe verificare se le vaccinazioni come strategia di salute pubblica diminuiscono il rischio per lo sviluppo della demenza con l’età».
Il ruolo dell’anti-Flu stagionale studiato su oltre 9.000 pazienti
Ricerche precedenti hanno suggerito che le vaccinazioni possono avere un fattore protettivo contro il declino cognitivo, ma non ci sono stati studi di grandi dimensioni e completi incentrati sul vaccino influenzale e sul rischio di AD, in particolare.
Per colmare questa lacuna, il team di Albert Amran, della McGovern Medical School presso l’University of Texas Health Science Center a Houston, ha studiato un grande numero di dati americani dalle cartelle cliniche (n = 9.066).
Amran e colleghi hanno scoperto che ricevere una vaccinazione antinfluenzale era associato a una minore prevalenza di AD (rapporto di probabilità 0,83, p<0,0001), e tra i pazienti vaccinati che ricevevano più frequentemente il vaccino influenzale era associato a una prevalenza ancora più bassa (rapporto di probabilità 0,87, p = 0,0342).
Così, le persone che hanno costantemente ottenuto la loro inoculazione annuale di anti-Flu aveva un minor rischio di AD. Ciò si è tradotto in una riduzione di quasi il 6% di rischio di AD per i pazienti di età compresa tra 75-84 per 16 anni.
I ricercatori hanno scoperto che l’associazione protettiva tra il vaccino antinfluenzale e il rischio di AD era più forte per coloro che avevano ricevuto il loro primo vaccino in età più giovane — per esempio, le persone lo avevano ricevuto all’età di 60 anni hanno beneficiato di più di coloro che lo hanno per la prima volta all’età di 70 anni.
«Il nostro studio suggerisce che l’uso regolare di un intervento molto accessibile e relativamente economico – il vaccino antinfluenzale – può ridurre significativamente il rischio di AD» ha detto Amran. «Sono necessarie ulteriori ricerche per esplorare il meccanismo biologico di questo effetto — perché e come funziona nel corpo — che è importante quando esploriamo terapie preventive efficaci per l’AD».
Immunoprofilassi contro lo pneumococco, evidenze simili
Il riutilizzo di vaccini esistenti può essere un approccio promettente per la prevenzione dell’AD. Il team di Svetlana Ukraintseva, docente di Biodemografia dell’Unità di Ricerca sull’Invecchiamento (BARU) presso l’Istituto di Ricerca sulle Scienze Sociali della Duke University di Durham, ha studiato le associazioni tra la vaccinazione antipneumococica, con e senza vaccino anti-influenza stagionale di accompagnamento, e il rischio di AD in 5.146 partecipanti di età superiore ai 65 anni dal Cardiovascular Health Study.
Il team ha anche preso in considerazione un noto fattore di rischio genetico per l’AD, l’allele rs2075650 G nel gene TOMM40. I ricercatori hanno scoperto che la vaccinazione pneumococcica tra i 65 e i 75 anni riduceva il rischio di sviluppare l’AD del 25-30% dopo aggiustamento per sesso, etnia, coorte di nascita, grado di istruzione, fumo e numero di alleli G.
La più grande riduzione del rischio di AD (fino al 40%) è stata osservata tra le persone vaccinate contro la polmonite che erano non portatrici del gene del rischio. Il numero totale di vaccinazioni contro la polmonite e l’influenza tra i 65 e i 75 anni è stato anche associato a un minor rischio di AD; tuttavia, l’effetto non era evidente per il solo vaccino antinfluenzale.
«Le vaccinazioni contro la polmonite prima dei 75 anni possono ridurre il rischio di AD più tardi nella vita, a seconda del genotipo individuale» ha detto Ukraintseva. “«Questi dati suggeriscono che il vaccino antipneumococcico può essere un candidato promettente per la prevenzione personalizzata dell’AD, in particolare nei non portatori di alcuni geni del rischio».
Identificato un rapporto tra demenza, infezioni e mortalità
Le persone che convivono con demenza comunemente sperimentano altre condizioni di salute tra cui infezioni virali, batteriche e di altro tipo. C’è una crescente tendenza nella ricerca per indagare se le infezioni possano essere causa di peggioramento, essere più pericolose per la vita o forse causare demenza.
Il gruppo di Janet Janbek, del Danish Dementia Research Centre del Rigshospitalet e dell’Università di Copenhagen (Danimarca) ha utilizzato i dati dei registri sanitari nazionali per indagare sulla mortalità nei residenti danesi di età superiore ai 65 anni (n = 1.496.436) che avevano visitato l’ospedale con un’infezione.
I ricercatori hanno scoperto che le persone con demenza e tali visite ospedaliere sono morte a un tasso 6,5 volte superiore rispetto alle persone che non avevano nessuno dei due fattori. I partecipanti allo studio con la sola demenza o contatti correlati a infezioni hanno avuto un tasso triplicato. Il tasso di mortalità è stato più alto nei primi 30 giorni dopo la visita in ospedale.
Hanno anche scoperto che per le persone che convivono con demenza i tassi di mortalità sono rimasti elevati per 10 anni dopo la visita ospedaliera iniziale legata all’infezione, e i tassi di mortalità da tutte le infezioni (comprese le infezioni maggiori come la sepsi fino alle infezioni minori dell’orecchio) erano più alti rispetto alle persone senza demenza o senza una visita ospedaliera correlata all’infezione.
«Il nostro studio sostiene la necessità di approfondire ulteriormente queste relazioni per scoprire perché le infezioni sono legate a una maggiore mortalità nelle persone con demenza e, in particolare, quali fattori di rischio e meccanismi biologici sono coinvolti. Questo ci aiuterà a far progredire la nostra comprensione del ruolo delle infezioni nella demenza» ha detto Janbek.
Il nostro studio sulle vaccinazioni per influenza e polmonite, inoltre, suggerisce che il sistema sanitario – così come i parenti delle persone affette da demenza – dovrebbe avere una maggiore consapevolezza delle persone con demenza che contraggono infezioni, in modo da ottenere le cure mediche di cui hanno bisogno. Le persone affetta da demenza richiedono un trattamento più specializzato anche quando le visite ospedaliere non sono direttamente dovute alla loro demenza, ma a quella che potrebbe sembrare un’infezione non correlata» ha aggiunto Janbek.