Don’t cry for me Argentina: la storia di Evita Perón, la Reina de los descamisados, e i suoi legami con l’Italia
La luce. Era questo che incantava guardandola: la luce evanescente e carismatica che il suo volto riverberava. Bionda ed elegante, sorriso dolce e sguardo deciso: così era Evita Perón, la donna più potente e amata dell’Argentina del Novecento. Eva Maria (questo il suo nome all’anagrafe) nacque il 7 maggio 1919 a La Unión, una tenuta agricola a un tiro di schioppo dal paese di Los Toldos, in provincia di Buenos Aires, tenuta che faceva parte delle proprietà terriere di Juan Duarte, dove sua madre, Juana Ibarguren, era al servizio come cuoca. Lui era sposato e aveva una famiglia regolare in un’altra località distante un centinaio di chilometri, Chivilcoy, ma le carni brune e gli occhi incendiari di Juana gli scatenarono una passione rapace. Ci sono amori nati per volare in cieli limpidi e amori nati per rimanere colpevoli e clandestini. Quello fra padrone e cuoca fu uno di questi.
Juana partorì cinque figli illegittimi fra i pettegolezzi e i mormorii della gente e il malevolo astio della famiglia regolare di Juan, il quale poco dopo la nascita dell’ultimogenita Eva Maria abbandonò amante e prole e se ne tornò a vivere sotto il tetto coniugale di Chivilcoy. Juana, disperata ma non vinta, prese i bambini e i pochi bagagli che possedeva e lasciò anche lei la tenuta, trasferendosi a Los Toldos dove un giorno la piccola Eva, chiamata affettuosamente Evita, entrando in classe vide scritto sulla lavagna a caratteri cubitali: «No eres Duarte, eres Ibarguren»: non sei una Duarte, sei una Ibarguren (il cognome della madre). Una lama di coltello nello stomaco fu per lei quella umiliazione e mentre i suoi compagni continuavano a sghignazzare con la (in)consapevole crudeltà della loro età, lei lentamente, rigida e altera, lo sguardo fisso davanti a sé senza una lacrima, la bocca serrata diventata un taglio, andò a sedersi al suo banco. Fu quel giorno che decise il suo riscatto: diventerò qualcuno e gliela farò pagare a tutti.
Nel gennaio 1926 intanto suo padre Juan Duarte muore in un incidente d’auto, e allora Juana, vedova non riconosciuta e donna sola con tante bocche da sfamare, decide di andare a vivere con i suoi figli nella bella cittadina di Junin, e qui, china tutto il giorno sulla sua macchina da cucire Singer, diventa una sarta apprezzata dalle eleganti signore della borghesia. A Junin Evita, che ormai ha 15 anni, osserva con ammirazione e un pizzico di invidia le donne dell’alta borghesia passeggiare la domenica sotto braccio ai loro mariti azzimati, sfoggiando gioielli e pellicce e ne rimane incantata. Lei non è come le altre sorelle che sognano un futuro tranquillo e modesto: lei è sì romantica, ma è soprattutto volitiva e determinata, ambiziosa e risoluta. Entrare a far parte del mondo lussuoso e luccicoso del Cinema è il suo obiettivo; diventare ricca e famosa il suo traguardo, ma non sa che il Fato ha deciso per lei un futuro ancora più glorioso e tragico.
Conosce nel frattempo il celebre cantante di tango Augustin Magaldi al quale rivela il fuoco sacro che cova dentro di sé per il palcoscenico e lui, che è una vecchia volpe, l’accoglie a braccia aperte e, si dice, anche nel suo letto. Evita si trasferisce così a Buenos Aires per tentare la fortuna: comincia a muovere i primi passi a Teatro e a frequentare il mondo dello spettacolo. Non è più la modesta ragazza di provincia: ha tinto i capelli di biondo che accentuano la sua pelle di latte e per contrasto evidenziano i suoi occhi neri e vivaci e si trasforma in una giovane donna piena di fascino; pur non essendo una bellezza vistosa (è minuta e piccolina) si fa notare per i modi accattivanti, il glamour innato, e la grinta che traspare da ogni suo gesto. Nel frattempo inizia a recitare in radio in quei radiodrammi ricchi di pathos e colpi di scena che ogni sera tenevano avvinghiati migliaia di persone: la sua voce calda e carezzevole e le indubbie doti interpretative fanno sì lei diventi l’attrice radiofonica più apprezzata del Paese e raggiunge ben presto fama e benessere economico.
«Nella vita di ogni donna c’è almeno un giorno meraviglioso e il mio è quello in cui ho incontrato Perón» scriverà rapita nella sua autobiografia La razon de mi vida. E l’incontro con l’uomo che diventerà la ragione della sua vita avviene il 22 gennaio 1944 quando lei partecipa insieme ad altri personaggi dello spettacolo e della politica ad un festival organizzato per raccogliere fondi per la cittadina di San Juan martoriata da un terremoto disastroso. Il colonnello Juan Domingo Perón era uno dei capi del Grupo de Oficiales Unidos che l’anno precedente aveva provocato con un colpo di Stato militare la caduta dell’allora presidente Ramon Castillo a favore del Generale Edelmiro Farrel e da questi ricompensato con le cariche di segretario del Lavoro e degli Affari sociali.
Lei ha 24 anni e un passato chiacchierato, lui ne ha 48, è vedovo e uno degli uomini più potenti e influenti dell’Argentina: si guardano e Cupido scocca una freccia infuocata. Alla fine della serata escono insieme sottobraccio e per lei inizia la leggenda. Evita s’innamora in modo impetuoso di quest’uomo alto, possente, fascinoso e dal sorriso contagioso, la cui avvenenza era il frutto di un meticciato di varie etnie: scozzese, italiana, uruguayana, tehuelche (ossia i nativi della Patagonia).
Perón è un uomo ambiziosissimo e nell’anno successivo diventa nel contempo ministro della guerra, segretario del lavoro e vicepresidente: troppo per i suoi nemici all’interno delle stesse forze armate che il 9 ottobre lo costringono alle dimissioni e lo arrestano.
Dal carcere dove è rinchiuso scrive a Evita parole d’amore e di rimpianto: «Adesso so quanto ti amo e che non posso vivere senza di te. La mia immensa solitudine è piena del tuo ricordo». Passano solo pochi giorni e gli operai reagiscono in modo sorprendente e risoluto: in migliaia, una vera fiumana, si riversano per le strade chiedendo a gran voce la liberazione di Perón. Fa caldo quel giorno di ottobre (nell’emisfero australe in quel mese è primavera), la calca è asfissiante e allora i manifestanti, con un gesto che passerà alla Storia, si tolgono la camicia mentre scandiscono rabbiosi Perón libre, Perón libre: sono i descamisados (i senza camicia) e a galvanizzarli è proprio Evita, nel frattempo diventata una fervente attivista.
Perón viene liberato a furor di popolo e il 22 ottobre 1945 sposa la sua compagna in un tripudio di consenso popolare. Lei da allora in poi si firmerà Maria Eva Duarte de Perón, ma per il popolo argentino lei è semplicemente Evita, la Reina de los descamisados. È proprio a loro e alle migliaia di cabecitas negras, le “testoline nere” ovvero i contadini e i poveri dalla pelle scura delle zone interne del Paese che il processo di urbanizzazione aveva fatto confluire a Buenos Aires, che lei si rivolge nei suoi fiammeggianti comizi in cui sempre di più appare come trascinatrice di folle e incantatrice di cuori. Sa come incendiare gli animi, sa parlare al cuore della gente: è sincera e ardente, appassionata e generosa e non dimentica le proprie origini, anche se gira con truccatore e parrucchiere al seguito, indossa abiti sontuosi e costosi (di Dior soprattutto), cappellini eleboratissimi e gioielli da favola (alla sua morte in cassaforte gliene ritrovarono per un valore di sei milioni di pesos). «Sono una di voi. So cos’è la fame» ripete spesso in pubblico e migliorare la condizione di poveri e diseredati, difendere i loro diritti, legittimare i figli nati fuori dal matrimonio (come lei) e dar voce alle prerogative delle donne sarà sempre il suo obiettivo primario, la sua missione fino alla fine.
Il 24 febbraio 1946, pochi mesi dopo la sua liberazione, Juan Domingo Perón diventa Presidente di quel grande Paese e così lei, l’ex ragazzina illegittima e umiliata dai compagni di classe, è la nuova Primera Dama e in quella veste svolgerà con passione e abnegazione il ruolo che più le sta a cuore: quello di abanderada de los humildes (portavoce degli umili). È lei la vera paladina del perónismo, il sincretico movimento politico che mira a tracciare una terza via tra capitalismo e comunismo, la seguace più ardente e convinta di suo marito Perón, figura assai controversa e discussa, idolatrato da molti e odiato da tantissimi. Evita raggiunge in breve una fama smisurata: riceve in media dodicimila lettere al giorno, lavora nel suo ufficio fino a notte fonda, gira fra i poveri e i baraccati senza sosta non lesinando parole di conforto e abbracci, portando speranza e aiuti economici (nel corso della sua breve esistenza si parlò di 50 milioni di pesos elargiti).
Fa costruire scuole, 21 ospedali, case di riposo, quattromila alloggi per i diseredati (che costituiranno la cosiddetta Evita city), attrezza colonie estive per i bambini e, memore di sua mamma che era riuscita a mantenere una famiglia di sei persone grazie ad una macchina da cucire, ne fa distribuire a milioni tra le famiglie. Il 9 settembre 1947 grazie a lei e alle sue lotte, il Parlamento approva il disegno di legge che consente il diritto di voto alle donne che gliene saranno sempre grate e diventeranno, anche per questo, le sue più ferventi sostenitrici. Le donne argentine imitano il suo chignon basso e la sua sfumatura particolare di biondo, gli impeccabili tailleur e gli chemisier à pois, le acconciature floreali tra i capelli e le scarpe bianco dal tacco alto. Ma anche lei ha nemici che l’accusano di nascondere parecchi scheletri nell’armadio e di usare ipocritamente le sue munifiche elargizioni per tenere buono e asservito il popolo. «Coloro che mi attaccavano» dichiarerà lei in un’intervista «non potevano perdonare ad una giovane donna di aver avuto così tanto successo.»
Sue acerrime nemiche sono anche le dame dell’aristocrazia e delle classi sociali più elevate: per loro Evita, anzi, Eva Ibarguren, come si ostinano a chiamarla, è solo una modesta attrice che aveva fatto fortuna, una scaltra parvenue che aveva saputo far breccia nel cuore dell’uomo più appetito e potente d’Argentina, una con un passato “disinvolto” e spregiudicato. Per questo la prestigiosa e snob Sociedad de beneficencia le rifiuta il ruolo di presidentessa che per prassi era riservata da sempre alla moglie del Presidente in carica. Lei, che è di natura magnanima ma anche impulsiva, dura e autoritaria, fa chiudere la Sociedad con atto governativo per istituire al suo posto la Fundacion Maria Eva Duarte de Perón.
Dato il carisma irresistibile e la popolarità in continua ascesa, suo marito Perón nel 1947 la invia in Europa per quello che sarà ribattezzato il Rainbow Tour e in molti Stati, Italia compresa, la Primera Dama d’Argentina viene accolta come una Regina. Ma nel 1950 destino personale s’ammanta all’improvviso dei colori cupi della tragedia: comincia ad accusare forti dolori allo stomaco che lei volutamente trascura: «i doveri verso il mio popolo sono più pressanti della mia salute» ripete a tutti, ma la sofferenza si fa di giorno in giorno più rapace e grifagna. Il verdetto è crudele: cancro all’utero. Evita rifiuta l’intervento chirurgico perché suo marito nel febbraio 1951 è di nuovo in corsa per le elezioni che si sarebbero tenute a Novembre e lei vuole essere al suo fianco, deve essere al suo fianco «per il bene dell’Argentina» ribadisce con forza.
Non si risparmia neanche questa volta: infaticabile, prodiga, combattiva, sostiene il marito ed è sempre accanto a lui nei comizi e nelle arringhe, sempre elegante e senza un capello fuori posto anche se i dolori diventano sempre più atroci e il pallore e la magrezza si fanno sempre più inquietanti. Il male se la mangia vorace in poco tempo. È da un letto d’ospedale che infila la scheda elettorale nell’urna: è emaciata, ma ancora bellissima e combattiva. L’11 novembre 1951 Perón vince con una maggioranza schiacciante e il corteo presidenziale si snoda per le strade di Buenos Aires: è un trionfo, un tripudio di gente, bandierine, petali di fiori e acclamazioni. Evita è in piedi accanto al suo Juan, luminosa e diafana: sorride serrando i denti perché i dolori nonostante la morfina sono implacabili ed è talmente debole che deve indossare un particolare busto di metallo che la sorregga durante la parata.
Il primo maggio 1952 appare in pubblico. Parla a fatica, la voce rotta dalla commozione.
In pochi s’accorgono che sta in piedi solo perché il suo Juan la sostiene da dietro. Quando termina il suo discorso s’accascia tra le sue braccia e piange. Sarà la sua ultima apparizione in pubblico. Ma Perón era davvero addolorato? C’è chi giura che no e il confine tra realtà e mistificazione in questi casi si fa labile: molti raccontavano che lui era sempre accanto a lei in quel letto di sofferenza inaudita e che fosse straziato dal dolore; altri invece sussurravano a mezza bocca che in realtà il Presidente, provando una sorta di dolorosa repulsione per quel corpo ischeletrito, dormisse lontano e si rifiutasse addirittura di farle visita. Ed è a questo punto della storia che s’innesta un evento sconcertante: nel 2005 il neurochirurgo ungherese George Udvarhelyi dichiara in un’intervista di aver fatto parte dell’equipe medica che nel 1952 aveva praticato una lobotomia a Evita senza il suo consenso. La decisione, così si racconta, sarebbe stata presa dallo stesso marito su pressioni del governo.
Se così effettivamente è stato, quali furono ragioni che avrebbero indotto Perón a farle praticare quell’intervento così devastante? Era stato per aiutarla a sopportare gli inenarrabili dolori che il tumore le provocava? O la ragione, più sconvolgente, risiede nella volontà di azzerare così il potere politico di Evita? Quali che fossero le motivazioni, quell’intervento fu per lei esiziale: smise praticamente di nutrirsi arrivando a pesare 37 chili e trascorse gli ultimi giorni in uno stato pressoché vegetativo. Il 26 luglio 1952 alle 20,25 i commentatori e gli annunciatori di tutti i canali radio dell’Argentina si fermano per annunciare, con la voce rotta dall’emozione, che «Eva Perón, capo spirituale della nazione, è entrata nell’immortalità.» Era morta all’età di trentatré anni, come nostro Signore Gesù, sottolinearono tutti. Un lugubre pianto si levò allora dall’intero Paese. Per quindici giorni due milioni di persone ammutoliti dal dolore sfilarono davanti al suo feretro di vetro dove lei riposava imbalsamata: gli uomini con il capo chino, le donne soffocando i singhiozzi nei fazzoletti.
Don’t cry for me Argentina, ma tutta la Nazione piange e si dispera: piangevano i suoi descamisados, piangevano le donne per i cui diritti lei si era battuta come una leonessa, piangevano i giovani che avevano individuato in lei una guida autorevole e materna. Quando il 19 settembre 1955 gli esponenti della Revolucion libertadora attuano un colpo di Stato e costringono Perón ad andare in esilio prima in Paraguay e poi in Spagna, per le spoglie di Evita inizia una sorta di calvario.
I golpisti vogliono cremarne il corpo per evitare che l’esposizione della salma perpetui la devozione del popolo nei suoi confronti, ma grazie anche al supporto del Vaticano, i peronisti riescono a far arrivare i resti mortali in Italia. Il 13 maggio 1957 Evita viene sepolta sotto il falso nome di Maria Maggi de Magistris nel cimitero di Musocco a Milano. Solo nel 1976 le sue spoglie giungono finalmente a Buenos Aires dove riposano in una piccola tomba di marmo nera nel Cementerio de la Recoleta, il cimitero monumentale della città. Sulla lapide lei, la Reina de los descamisados, aveva ordinato di incidere queste parole: Tornerò. E sarò milioni.
di Daniela Musini