Sclerosi multipla: ofatumumab in fase 3 riduce il tasso annualizzato di recidive rispetto a teriflunomide secondo un nuovo studio
Sul “New England” è stato pubblicato un confronto ‘testa a testa’ tra due farmaci nel trattamento della sclerosi multipla (SM). Da un lato ofatumumab, un anticorpo monoclonale umano sottocutaneo anti-CD20 (attualmente indicato nella leucemia linfatica cronica) che determina una deplezione selettiva delle cellule B. Dall’altro teriflunomide, un inibitore orale della sintesi delle pirimidine che riduce l’attivazione delle cellule T e delle cellule B. Dal risultati di due studi di fase 3, randomizzati, in doppio cieco, double dummy, con controllo attivo e di stesso disegno (ASCLEPIOS I e II), è risultato che ofatumumab è associato a un più basso tasso annualizzato di recidive rispetto a teriflunomide.
Pur non essendo noti gli effetti relativi dei due farmaci nei pazienti con SM, le premesse per questa conclusione non sono parse del tutto inattese agli autori, coordinati da Stephen L. Hauser, dell’UCSF Weill Institute for Neuroscience, Department of Neurology, University of California, San Francisco.
«Ofatumumab si lega a una regione distinta da quella di altri anticorpi anti-CD20, compreso il loop più piccolo e quello più grande dei recettori CD20» ricordano gli autori.
«Nei pazienti con sclerosi multipla, ofatumumab può essere somministrato a dosi inferiori rispetto a quelle studiate nella leucemia linfocitica cronica e nell’artrite reumatoide e può essere somministrato per via sottocutanea al paziente dopo che le dosi iniziali sono state somministrate sotto controllo medico» proseguono.
Alla fine del trattamento, è stato segnalato che la replezione dei linfociti B e la ricostituzione dell’immunità umorale si verificano più velocemente con ofatumumab rispetto ad altre terapie mirate ai linfociti B somministrate per via endovenosa, aggiungono.
Quanto a teriflunomide, specificano Hauser e coautori, secondo i risultati di uno studio prospettico comparativo e di una network metanalysis, la sua efficacia nel ridurre i tassi di recidiva annualizzati è simile a quella degli interferoni e del glatiramer acetato, ma secondo studi osservazionali è probabilmente inferiore ad altri trattamenti orali e anticorpi monoclonali per la SM.
Il metodo degli studi ‘gemelli’ ACLEPIOS I e II
Nei due studi di fase 3 sopra menzionati, I ricercatori hanno assegnato in modo randomizzato i pazienti con SM recidivante a ricevere ofatumumab per via sottocutanea (20 mg ogni 4 settimane dopo dosi di carico da 20 mg ai giorni 1, 7 e 14) o teriflunomide orale (14 mg al giorno) per un massimo di 30 mesi.
L’endpoint primario era il tasso di recidiva annualizzato. Gli endpoint secondari includevano peggioramento confermato della disabilità a 3 mesi o 6 mesi, miglioramento confermato della disabilità a 6 mesi, il numero di lesioni captanti gadolinio per alla risonanza magnetica (MRI) pesata in T1, il tasso annualizzato di lesioni nuove o ingrandite alla MRI pesata in T2, i livelli sierici delle catene leggere del neurofilamento al mese 3 e variazione del volume cerebrale.
Superiorità nell’endpoint primario e in molti endpoint secondari
«Nel complesso» riportano gli autori «946 pazienti sono stati assegnati a ricevere ofatumumab e 936 a ricevere teriflunomide; il follow-up mediano è stato di 1,6 anni».
I tassi di recidiva annualizzati nei gruppi ofatumumab e teriflunomide sono stati rispettivamente di 0,11 e 0,22 nello studio 1 (differenza, -0,11; intervallo di confidenza al 95% [CI], da -0,16 a -0,06; P <0,001) e 0,10 e 0,25 nello studio 2 (differenza, -0,15; IC al 95%, da -0,20 a -0,09; P <0,001).
«Negli studi aggregati» scrivono Hauser e colleghi «la percentuale di pazienti con peggioramento confermato della disabilità a 3 mesi è stata del 10,9% con ofatumumab e del 15,0% con teriflunomide ( hazard ratio, 0,66; P = 0,002); la percentuale di peggioramento confermati della disabilità a 6 mesi è stata rispettivamente dell’8,1% e del 12,0% (hazard ratio, 0,68; P = 0,01); e la percentuale con miglioramento della disabilità confermata a 6 mesi è stata dell’11,0% e dell’8,1% (hazard ratio, 1,35; P = 0,09)».
«Il numero di lesioni captanti gadolinio per scansione MRI pesata in T1, il tasso annualizzato di lesioni alla risonanza magnetica T2 pesata e i livelli sierici delle catene leggere del neurofilamento (ma non la variazione del volume cerebrale), erano nella stessa direzione dell’endpoint primario.
Circa il profilo di sicurezza, gli autori riportano che reazioni correlate all’iniezione si sono verificate nel 20,2% nel gruppo ofatumumab e nel 15,0% nel gruppo teriflunomide (iniezioni di placebo) mentre infezioni gravi si sono verificate nel 2,5% e nell’1,8% dei pazienti nei rispettivi gruppi.
I punti di forza e i dati da rivalutare
«In questi due studi clinici controllati attivi condotti simultaneamente che hanno coinvolto pazienti con SM recidivante, sia ofatumumab che teriflunomide sono stati associati a una basso tasso di recidiva» osservano gli autori «ma quest’ultimo era significativamente inferiore con ofatumumab che con teriflunomide in ciascuno dei due studi».
In una meta-analisi prespecificata di entrambi gli studi, le percentuali di pazienti con peggioramento confermato della disabilità a 3 mesi o 6 mesi erano inferiori con ofatumumab rispetto a teriflunomide, ma i gruppi non differivano in modo significativo rispetto al miglioramento confermato della disabilità, specificano Hauser e coautori.
«Ofatumumab è stato anche superiore a teriflunomide nella soppressione dell’attività lesionale alla MRI» commentano gli autori. In particolare, spiegano, «i conteggi delle lesioni alla MRI nei gruppi teriflunomide erano superiori a quelli precedentemente riportati in un solo studio di fase 3 con teriflunomide a confronto con placebo, il che suggerisce una popolazione con più attività di malattia in generale negli studi ASCLEPIOS oppure differenze nei metodi di valutazione utilizzati presso i centri di analisi MRI o entrambe le cose».
Come accennato, ofatumumab ha ridotto le concentrazioni sieriche delle catene leggere del neurofilamento, un marker di danno neuroassonale. «Tuttavia» scrivono i ricercatori «nonostante le maggiori riduzioni di concentrazione di catene leggere di neurofilamento con ofatumumab rispetto a teriflunomide, le modificazioni del volume del cervello non differivano in modo significativo tra i due trattamenti». Questa discrepanza tra i due marker di danno tissutale necessitano di ulteriori analisi, affermano.
Infine, «ofatumumab ha ridotto il numero di cellule B durante il regime di carico di 4 settimane e l’iniziale deplezione di cellule B è stata mantenuto mediante iniezioni mensile» aggiungono. Ofatumumab è stato anche associato a una maggiore frequenza di reazioni sistemiche correlate all’iniezione, prevalentemente con la prima iniezione, rispetto all’iniezione di placebo, riportano gli autori.
«Sono necessari studi più ampi e più lunghi per determinare l’effetto a lungo termine dei rischi di ofatumumab rispetto ad altri trattamenti modificanti la malattia, inclusi altri anticorpi monoclonali anti-CD20» concludono Hauser e colleghi.