Hikikomori: isolamento sociale continuo per almeno sei mesi e angoscia per questo allontanamento sono le condizioni per parlare di sindrome
Per parlare di “sindrome hikikomori” è necessario che coesistano almeno “tre condizioni: isolamento sociale, che sia continuo per almeno sei mesi e un sentimento di angoscia provocato proprio dal ritiro sociale. In questo caso si può parlare di disturbo psicopatologico”. A dirlo alla Dire (www.dire.it) è Walter Orrù, psichiatra e direttore dell’Icsat (Italian Committee for the Study of Autogenic Therapy and Autogenic Training), che fa parte del gruppo di ricerca in psicopatologia all’interno del progetto ‘Ritirati ma non troppo’ dell’Istituto di Ortofonologia (IdO).
Si può parlare, quindi, di profilo di patologia se ci si riferisce ai ragazzi hikikomori? “In Psichiatria per dire che un fenomeno è un disturbo, una malattia vera e propria, bisogna tracciare delle caratteristiche ben precise e siamo ormai prossimi- conferma Orrù- a dire che si tratta di un disturbo psichiatrico“. L’aspetto più importante riguarda proprio il ritiro fisico in casa, dalla scuola e dalle relazioni con gli altri ragazzi del loro gruppo”.
Una situazione non scevra da angoscia: “Sono ragazzi che non vivono tranquillamente questo ritiro a casa- precisa Orrù- tanto da sviluppare una situazione ambivalente: è come se questo ritiro venisse compensato dall’uso della rete“.
L’isolamento domestico non è una condizione nuova tra gli specialisti della Salute mentale. “Esistevano già da tempo situazioni dove, in presenza di patologie psichiatriche come la depressione, la schizofrenia o i disturbi dello spettro autistico, l’esito era un ritiro sociale. Sono problematiche che hanno una condizione di comorbidità- spiega Orrù- e rispetto al fenomeno hikikomori oggi la difficoltà sta proprio nel fare diagnosi differenziali, nel senso di distinguere una forma primaria di ritiro sociale rispetto a tutte le altre forme che sembrano poi associarsi al fenomeno hikikomori”. Ne consegue che la terapia cambia “a seconda che sia primaria o associata a questi disturbi”.
Perché è un fenomeno di prevalenza maschile? “Sin da subito abbiamo notato che il rapporto di prevalenza maschi-femmine è di circa 4:1– conferma Orrù- e sembra associato a fattori soprattutto culturali. Dal punto di vista familiare, almeno in Giappone, i maschi vivono una condizione diversa da quella delle donne: le madri sono molto protettive nei confronti dei maschi e i padri sembrano assenti per motivi di lavoro. I maschi soffrono quindi una sovraesposizione in termini di visibilità sociale, che non consente la possibilità di avere uno spazio privato, intimo, da dedicare a se stessi e alla propria crescita. Si sentono continuamente esposti al giudizio altrui, e in una società dove i network sociali imperano sono tutti esposti, sotto il peso dei giudizi e di sentimenti di vergogna. Le donne sembrano più colpite sull’aspetto alimentare, come anoressia o obesità“.
Il progetto messo appunto dalla responsabile del servizio terapie IdO, Magda Di Renzo, vuole evidenziare i diversi fattori psicopatologici, sociali e culturali che caratterizzano questo disturbo, per individuare poi degli interventi che siano per questi ragazzi il più precoci possibile. “Spesso intercorrono molti anni tra il momento in cui appare il disturbo nella famiglia e quello in cui le famiglie chiedono aiuto. Non sempre c’è la richiesta di aiuto e diventa importante riconoscere i fattori precoci ed educare le famiglie a capire dove portano questi campanelli di allarme in modo che chiedano aiuto”, sottolinea lo psichiatra.
I primi segnali di pericolo “certamente si manifestano a livello scolastico– aggiunge Orrù- poi c’è tutto il discorso legato a un eccessivo rapporto con internet, dove il problema non è lo strumento ma l’abuso che si fa dell’uso della rete. Parliamo di ragazzi connessi fino a 12 ore al giorno”. Tra i disturbi associati, infatti, c’è proprio la “dipendenza da internet. Inoltre, si ritrovano spesso anche problematiche corporee collegate alla vergogna del proprio corpo”.
L’aver subito atti di bullismo o cyberbullismo può essere un fattore che spinge al ritiro? “Sì- risponde il direttore Icsat- si è visto che questi ragazzi tendono, per ragioni sempre sociali, a subire e hanno qualche difficoltà a difendersi da questi atti. Il bullismo è, in un certo senso, una sorta di situazione traumatica che tende a riproporre qualcosa che è già accaduto in passato”. In sintonia con questa tesi, un altro aspetto che ritorna “facilmente all’anamnesi di questi giovani sono per esempio le distocie del parto”. È un termine medico che vuol dire parto prematuro: “Come se questi neonati avessero subito una sorta di primo trauma psichico che poi, quando viene riproposto attraverso alcuni traumi successivi, tende a ricollegarsi a questi ultimi e magari a creare tali situazioni di isolamento. È chiaro che c’è sempre un primo trauma che potrebbe aver innescato qualcosa nella persona e nella famiglia, a cui si aggiungono i fattori socioculturali che partecipano in maniera multidisciplinare alla creazione del disturbo”.
Quindi un trauma non trattato alla nascita potrebbe rendere il soggetto più vulnerabile a un possibile ritiro? “Gli ultimi studi sugli hikikomori stanno puntando maggiormente l’attenzione anche su questi aspetti, che in ambito medico non hanno ancora un’adeguata considerazione sul piano psicologico. Un’attenzione sicuramente importante- conclude- per capire cosa fare e come intervenire”.
L’AUMENTO CON IL LOCKDOWN: “AIUTARE LE FAMIGLIE”
“In Giappone, dove gli hikikomori sono stati osservati per la prima volta, si è visto che il fenomeno riguarda per il 90% dei casi i figli unici. In Italia, invece, non c’è una prevalenza così netta di questa condizione. Anzi, spesso, il ritirato sociale ha fratelli o sorelle che risentono della loro sofferenza profonda”. A tracciare l’identikit dell’hikikomori italiano è Pamela D’Oria, psicologa clinica e specializzanda della Scuola di Psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva della fondazione MITE e dell’Istituto di Ortofonologia (IdO). D’Oria è uno dei membri del pool di specialisti (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, neuropsichiatri e un pediatra) messo su da Magda Di Renzo, responsabile del servizio Terapie dell’IdO, per indagare il fenomeno e supportare le famiglie con ragazzi hikikomori. L’iniziativa , denominata ‘Ritirati ma non troppo’ e di cui D’Oria è coordinatrice, è partita in pieno lockdown e prevede gruppi di supporto psicologico per famiglie con figli ritirati totalmente gratuiti.
Il progetto prevede, infatti, due fasi. La prima fatta di sei incontri, di cui quattro a cadenza settimanale e due a cadenza quindicinale. “Il primo gruppo di tre famiglie concluderà il percorso della prima fase con me- spiega D’Oria- e la psicoterapeuta Micaela Calciano, con gli incontri dell’11 e del 18 settembre. Poi, per chi vorrà, ci sarà una fase di secondo livello, condotta da Magda Di Renzo e Walter Orrù, psichiatria e direttore Icsat, in cui verranno approfondite le dinamiche emerse nel corso della prima fase. L’11 settembre partirà anche un nuovo gruppo, condotto da Magda Di Renzo e dalla psicologa Daria Alegiani Sagnotti, al quale hanno aderito già quattro famiglie”. Accanto a queste attività, l’IdO sta studiando anche una modalità per “agganciare i ragazzi autoreclusi attraverso l’uso dei videogiochi. Il ritiro sociale è egosintonico- spiega D’Oria- ed è difficile che il ragazzo ritirato richieda di essere aiutato”.
Ritornando al termine hikikomori, la definizione descrive chi decide di ritirarsi dalla vita sociale rinchiudendosi in casa (spesso nella propria stanza) per almeno sei mesi. “La famiglia può reagire in due modi opposti– spiega ancora D’Oria- ci sono fratelli o sorelle che decidono di prendere le distanze, sia fisiche che emotive, dal congiunto ritirato trascorrendo la maggior parte del tempo fuori casa, oppure scegliendo, ad esempio, sedi universitarie lontanissime. In questa situazione il sentimento che prevale è quello della vergogna. All’opposto ci sono fratelli e sorelle- ricorda D’Oria- che hanno un rapporto simbiotico con il ragazzo hikikomori, condividono la quotidianità, i videogiochi. In suddetti casi la loro presenza può migliorare la condizione del ritirato, è comunque una relazione sociale, l’unica in grado di sussistere, a parte ovviamente quelle mantenute virtualmente”.
Ma quanti sono in Italia gli hikikomori? “Tra chi si è realmente ritirato e chi ha una propensione a farlo ma magari continua a frequentare la scuola senza avere altri contatti sociali si contano tra i 100 e i 120mila casi”, sottolinea la psicologa.
Numeri importanti che gli esperti considerano ancora sottostimati. “E’ un fenomeno che riguarda trasversalmente sia le grandi città sia i piccoli paesi e impatta notevolmente anche sul sistema scolastico”, precisa la coordinatrice del progetto IdO.
Una realtà sociale che la pandemia non ha lasciato indenne. “Il lockdown ha avuto due effetti sugli hikikomori- evidenzia l’esperta- da un lato le famiglie hanno registrato un leggero miglioramento perché il ritirato, per effetto della condivisione dello stato di ritiro, era più partecipe della vita familiare, trascorreva meno tempo nella stanza e più nell’ambiente condiviso. Dall’altro lato, però, il lockdown ha favorito un’entrata nel ritiro in quei soggetti che avevano una vulnerabilità già prima della pandemia. Sicuramente- conclude D’Oria- il trascorrere tanto tempo on line, o stando ai videogiochi, ha allargato quella fetta di giovani che ha trasformato la reclusione da forzata in volontaria”.
Oltre i gruppi di terapia messi a disposizione delle famiglie, l’IdO ha creato anche quattro gruppi di ricerca sul fenomeno Hikikomori, composti da 5 specialisti ognuno. I temi di indagine, che abbracciano tutta la condizione di isolamento sociale, sono: i miti; il ruolo genitoriale; la psicopatologia; e infine il trauma. Per avere informazioni su come partecipare ai gruppi di supporto per le famiglie, che ripartono l’11 settembre, è possibile scrivere alla mail pmldoria@gmail.com.
PER GUARIRE BISOGNA PARTIRE DAI GENITORI
“Non possiamo pensare di fare terapia ai ragazzi se non abbiamo prima creato lo spazio dentro i genitori. Ci sono troppi tentativi falliti e sappiamo, ormai, che in un’ottica complessiva il cambiamento dell’atteggiamento genitoriale equivale a una piccola trasformazione della famiglia stessa”. Parte da qui Michaela Calciano, analista junghiana ARPA (Associazione per la ricerca in psicologia analitica), per spiegare il suo lavoro nei gruppi di supporto terapeutico all’interno del progetto IdO ‘Ritirati, ma non troppo. Un aiuto per le famiglie’, dedicato alla ricerca sul fenomeno del ritiro sociale e al sostegno psicologico dei nuclei familiari.
Le famiglie ‘hikikomori’ “hanno infatti alcuni tratti in comune”, sebbene il terapista debba sempre ricordare “che ogni famiglia ha le proprie peculiarità ed è quindi distinta dalle altre”. Questi nuclei familiari, però, vivono spesso una condizione “di grande disagio- sottolinea la terapeuta- per anni si occupano quasi esclusivamente da sole della gestione del ragazzo in ritiro sociale, e avvertono per questo un sentimento di isolamento profondo. Frequentemente provano imbarazzo e sentono di dover giustificare alla collettività l’assenza del proprio figlio”. Talvolta, può accadere addirittura che i genitori si sentano di dover dare conto “di qualsiasi tipo di comportamento del ragazzo. Sono famiglie che investono tutte le energie a disposizione, per accudire, proteggere e incoraggiare i propri figli- aggiunge Calciano- Sono estremamente resilienti“.
L’idea dell’IdO, alla base di ‘Ritirati ma non troppo’, è dunque che per le famiglie “la difficoltà stia proprio nella terapia, nella cura- spiega la psicoterapeuta- Occorre dare nuovo accesso alla loro pensabilità. Perché se ci troviamo di fronte a genitori che si spendono soprattutto in maniera concreta, dobbiamo poter pensare a risposte genitoriali diverse per accedere alla loro dimensione emotiva”. Ecco, a detta dell’esperta, la complessità più imponente a cui cerca di rispondere il nuovo progetto clinico IdO, pensato da Magda Di Renzo: ripartire dal nucleo, “trattando i genitori con cura e rispetto”.
Non a caso, infatti, “considerata la mole di riflessioni uscite nel corso del primo gruppo, si è pensato di attivare un secondo modulo terapeutico- illustra l’analista junghiana- per ottimizzare il lavoro fatto finora e continuando a personalizzarlo sulla base delle caratteristiche di ogni famiglia”. A livello terapico, perciò, “si è cercato di lavorare sull’elaborazione delle ferite. Parlare dei propri sentimenti di inadeguatezza, di scoraggiamento e di solitudine aiuta i genitori a trasformare quel disagio, che accomuna la famiglia, in scambio e unicità conquistata”.
I gruppi, si sono svolti “da remoto- chiarisce Calciano- ciò significa che hanno partecipato genitori da tutta Italia, e questa è una grande ricchezza anche per loro“. Inoltre, grazie alla piccola dimensione, il gruppo di fatto agevola “proprio l’elaborazione del vissuto- rimarca la psicoterapeuta- perché ancor prima di iniziare un approccio ad personam, consente di instaurare una condizione di fiducia e di poter lavorare sullo spazio che c’è, per accogliere la funzione terapeutica e il terapeuta”. Non si parte dal presupposto che con la partecipazione “vengano fornite illusoriamente tutte le istruzioni e le risposte giuste”. Il gruppo, piuttosto, consente ai singoli genitori di “attivare le loro competenze genitoriali residue che non utilizzano, dando un impulso alla trasformazione”.
Infine, sulla partecipazione ai gruppi, l’esperta risponde che sì, “c’è differenza tra madri e padri. Anche la nostra esperienza conferma la letteratura recente: c’è una preponderanza di madri singole che frequentano i gruppi rispetto alle coppie. E ciò vuol dire che la gestione del figlio in ritiro sociale è affidata a maggioranza a loro”, puntualizza Calciano. Non bisogna, però, cadere nel cliché per cui “i padri siano assenti per mancanza di interesse o di cura. Spesso- aggiunge- c’è un’assenza di ruolo in quanto hanno vissuto forti sentimenti di impotenza e bisogna guidarli verso il recupero della loro funzione paterna”. In questo senso, “abbiamo peraltro osservato che quando ci sono padri nei gruppi, c’è anche un maggior impulso all’elaborazione emotiva. Non solo aiutano la madre del ragazzo ma anche altre madri a poter fare delle elaborazioni”.
“AIUTO, NON RIESCO A USCIRE”
“Ci sono le condizioni per uscire ma non riesco a uscire. Esco, ma voglio rientrare”. Cos’è successo agli adolescenti italiani? “Di solito i più giovani erano gli ultimi a chiamarmi per ritornare in terapia, questa volta hanno iniziato subito dopo ferragosto, tornando proprio al tema che avevamo lasciato a luglio”. A dirlo è Rosi Ingrassia, psicoanalista Cipa – Istituto Meridionale e membro del progetto IdO ‘Ritirati ma non troppo’.
“Con il lockdown si è verificato un ulteriore scollamento tra il tempo dentro e il tempo fuori- continua l’analista- tra quello che viene definito il kairos e il Kronos. La quarantena ci ha messo dentro un tempo interno profondo ma che se non sai addestrare, se non sai usare, se non sai vivere pienamente come un tempo di conoscenza, diventa un vuoto”. Ecco che luci e ombre della reclusione domestica dettata dalla pandemia si sono riversate anche sul fenomeno hikikomori: “La quarantena ha fatto sentire per certi versi i ragazzi ritirati sociali più normali, avendo trovato una sintonia con chi viveva questa condizione e poteva comprenderli. Alcuni di loro sono usciti dalle stanze, hanno avuto una maggiore integrazione, altri invece hanno mostrato una maggiore scissione”.
Ci vuole tempo per ritornare al tempo esterno, “per ritrovare di nuovo questa sintonizzazione tra le emozioni che abbiamo vissuto durante il periodo della reclusione e quelle del tempo esterno- aggiunge Ingrassia- ci vuole tempo anche per capire il tempo esterno che tempo è, e il tempo interno che tempo è diventato”. Il 9 marzo scorso “eravamo tutti in una vita normale, poi il 10 mattina tutti chiusi dentro casa. Ma è stato anche vero il contrario: a maggio tutti avevamo questo desiderio enorme di ritornare alla vita di sempre, però la vita di sempre non è stata la vita che noi avevamo lasciato”.
Con gli hikikomori c’è solo il tempo interno. “Loro mangiano e vivono dentro le stanze. I loro letti diventano i palcoscenici della loro vita, ci trovi di tutto”. Per questo motivo con loro si potrebbe optare anche per l’home visiting: “Se la società cambia anche la psicoanalisi deve avere il coraggio di interrogarsi su come andare verso le nuove condizioni psichiche. Jung diceva che quando una terapia non funziona, di solito si dice che il paziente non è adatto per la terapia. Forse dovremmo chiederci: ma il terapeuta che terapia sta pensando per quel paziente? Personalmente ho attuato l’home visiting perché in quel caso era necessario che io lo facessi, in altre situazioni è anche possibile fare incontri via Skype, ma non c’è una soluzione unica. A volte si parte dall’home visiting per arrivare a Skype secondo un processo di conoscenza, altre volte è il contrario. Gli psicodinamici non hanno ricette”, conclude Ingrassia.
“SI RITROVANO NEI PERSONAGGI DEI MANGA”
Esiste una correlazione tra la lettura dei manga e il fenomeno degli hikikomori. “I manga sono annoverati tra le letture scelte da tutta la nostra nuova generazione da almeno dieci anni. I personaggi dei manga ripropongono in chiave post moderna le caratteristiche delle antiche tragedie greche, in cui c’è il male e il bene. Come frutto di una cultura orientale, tendono a integrare e non a scindere, così ogni personaggio dei manga contiene entrambe le dimensioni: la luce e l’ombra, nonché una tendenza a vivere le emozioni in modo molto amplificato”. Lo fa sapere Rosy Ingrassia, psicologa analista del Cipa Istituto Meridionale e membro del progetto ‘Ritirati ma non troppo’, l’iniziativa dell’Istituto di Ortofonologia (IdO) partita in pieno lockdown con gruppi di supporto psicologico totalmente gratuiti per le famiglie, ma non solo. Ingrassia, infatti, sempre nell’ambito del progetto IdO, fa parte anche del gruppo di ricerca sulla psicopatologia .
“Probabilmente gli occhi sgranati con la fissità dello sguardo dei personaggi manga- prosegue Ingrassia- indicano proprio una costante paura generata dalla propensione degli adolescenti ad aprirsi a un mondo che non sanno sempre decodificare. Mi sembra che sia proprio un luogo narrativo, in cui le proiezioni del disagio trovano uno spazio fertile, una possibilità”.
Gli aspetti d’ombra negli hikikomori riflettono soprattutto il sentimento della vergogna, profondamente cambiato negli anni. “La mia generazione ha fatto molto i conti con questo sentimento, che prima era legato al pudore e alla presenza di un eccesso del limite. Lo dico come donna- confessa la psicoanalista- perché tanti confini non potevano essere rotti, per cui quando inducevi a scompaginare qualche copione là subentrava la vergogna. Oggi, invece, è esattamente il contrario: la vergogna è spostata sul piano performativo e fa i conti con l’assenza del limite”. È indotta da una “società che fin dai primi anni di vita spinge i soggetti ad essere efficienti, efficaci e di successo. Nessuno più ascolta le emozioni dei bambini, che fanno fatica a trovare una possibilità di concentrazione sulla paura di confrontarsi con la scrittura, ad esempio, se pensiamo ai piccoli delle prime elementari. Chi ascolta gli adolescenti?- chiede ancora la terapeuta- che non sanno nemmeno quale indirizzo scolastico prendere”.
Il gruppo di ricerca si è interrogato sul possibile rapporto che esiste tra alcune condizioni dell’infanzia e poi le eventuali traiettorie evolutive che si possono sviluppare lungo il percorso di crescita, in riferimento al ritiro sociale: “Il filo continuum dell’hikikomori è certamente una disregolazione emotiva- chiarisce la studiosa- cioè l’impossibilità-incapacità di gestire il bagaglio emotivo che l’adolescente si ritrova ad avere dentro. Certamente il mutismo selettivo può essere già un prodromo di questa condizione, così come le fobie scolari. Mi riferisco a quei bambini che già mostrano i mal di pancia perché non vogliono andare a scuola, soffrono crisi di ansia da separazione quando è il momento di doversi allontanare dalla figura materna o dalla figura di accudimento”.
Sembrerà paradossale, ma sono a rischio anche i soggetti con plusdotazione: “Questi ragazzini vengono penalizzati sul processo di adattamento, e siccome il ritiro sociale nasce proprio come evitamento di un adattamento che non riesce ad essere trovato, pure i minori plusdotati, nel passaggio che c’è tra le medie e i primi anni delle superiori, o un po’ più avanti negli ultimi anni delle scuole superiori, corrono il rischio di fare questa scelta di evitamento, cadendo nell’isolamento sociale”.
A livello terapeutico, “la difficoltà maggiore con questi soggetti consiste nel trovare una regolazione affettiva nella relazione”. È un lavoro sulla fiducia, ma “non su quella che hanno trovato e perduto. Sto seguendo un ragazzo che ha questa condizione clinica- conclude Ingrassia- e posso confermare che non è una fiducia che prima avevano e che poi hanno perduto, non è un processo di riparazione, è un processo di costruzione dove la fiducia la devi ricostruire. A volte la costruisci stando in ascolto, evadendo qualsiasi tipo di lettura e interpretazione, che non va proprio fatta perché non c’è lo spazio”.