Studio Heymans: arriva un’ulteriore conferma sulle possibilità offerte dagli inibitori del PCSK9 di raggiungere corretti livelli di colesterolo
Al congresso Europeo di Cardiologia (ESC 2020), e precisamente dalla presentazione dello studio Heymans, arriva un’ulteriore conferma sulle possibilità offerte dagli inibitori del PCSK9 di raggiungere corretti livelli di colesterolo e conseguentemente ridurre il rischio di nuovi episodi cardiovascolari acuti.
«Si tratta di uno studio osservazionale attualmente in corso in undici Paesi Europei, inclusa l’Italia, che ha l’obiettivo di verificare le differenze fra le raccomandazioni delle Linee Guida e quello che succede nel mondo reale con uno dei nuovi farmaci per il controllo del colesterolo, l’inibitore del PCSK9 evolocumab – spiega uno dei componenti del comitato dello studio, Pasquale Perrone Filardi, Ordinario di Cardiologia, all’ Università “Federico II” di Napoli e presidente eletto della Società Italiana di Cardiologia. «L’arruolamento di oltre 1.800 pazienti e il loro monitoraggio per 16 mesi rende questo studio il più ampio finora disponibile sull’impiego di questa terapia».
Le caratteristiche dei pazienti reclutati
Un aspetto da sottolineare è la caratteristica dei pazienti reclutati e i livelli di colesterolo LDL al momento dell’ingresso nello studio.
«Si tratta di pazienti a rischio molto alto che, in oltre l’85% dei casi, avevano subìto un evento cardiovascolare e che entravano con un colesterolo LDL medio di 150 mg/dl, un valore molto alto relativamente al loro profilo di rischio» puntualizza l’esperto.
I risultati
La maggior parte (1663 [88%]) dei pazienti hanno avuto un follow-up di 12 mesi, 665 (35%) hanno avuto un follow-up di 18 mesi; il follow-up medio è stato di 16,3 mesi. L’età media (DS) era di 60,0 (10,8) anni; l’85% dei pazienti aveva una storia di malattia cardiovascolare (CVD), il 44% aveva una diagnosi di ipercolesterolemia familiare (FH), il 19% aveva diabete mellito di tipo 2, il 66% era iperteso, il 7% aveva insufficienza renale e la metà (51%) erano fumatori precedenti o attuali. La maggioranza (60%) ha riportato intolleranza alle statine e il 42% non riceveva alcun ipolipemizzante all’inizio di evolocumab. Meno della metà (805 [43%]) stavano ricevendo una statina (± ezetimibe) all’inizio di evolocumab; di questi, la maggior parte aveva una statina di intensità alta/moderata (68%/22%). Il 12% dei pazienti stava ricevendo una monoterapia con statine. Il C-LDL mediano era di 3,98 (3,16, 5,06) mmol/L. Entro 3 mesi dall’inizio di evolocumab, il C-LDL mediano è diminuito del 58% a 1,62 mmol/l. Questa riduzione è stata mantenuta nel tempo.
Complessivamente, il 58% dei pazienti ha raggiunto almeno un C-LDL <1,4 mmol/L durante il follow-up. Tra i pazienti che ricevevano statine di background e/o ezetimibe all’inizio di evolocumab, il 67% (667/990) ha raggiunto almeno un C-LDL <1,4 mmol/L, rispetto al 43% (295/679) dei pazienti che non ricevevano un background di statine/ezetimibe. Durante il follow-up, il 39-46% dei pazienti non ha ricevuto alcun ipolipemizzante di base, il 40-44% ha ricevuto statine ± ezetimibe, l’11-14% ha ricevuto una monoterapia con statine.
Soglia delle linee guida ESC/EAS da rivedere
In Europa, i pazienti che hanno iniziato a prendere evolocumab avevano livelli basali di LDL-C quasi 3 volte superiori alla soglia attuale per l’uso di PCSK9i.
Evolocumab ha determinato una riduzione di oltre il 50% del colesterolo LDL; tuttavia, solo circa la metà di tutti i pazienti ha raggiunto un C-LDL <1,4 mmol/L.
Il raggiungimento dell’obiettivo di colesterolo LDL era più alto tra i pazienti che ricevevano evolocumab con ipolipemizzanti di base, suggerendo che il raggiungimento degli obiettivi di C-LDL EAS/ESC richieda più ipolipemizzanti e una soglia inferiore per l’avvio di PCSK9i.
I punti chiave
• Il C-LDL mediano all’inizio di evolocumab era di 3,98 mmol/L, molto al di sopra delle soglie raccomandate da ESC/EAS di 1,8 mmol/L e 1,4 mmol/L per l’inizio di PCSK9i in pazienti a rischio alto e molto alto, rispettivamente.
• In questo studio di pratica clinica, evolocumab ha ridotto il C-LDL di circa il 58% e questa riduzione è stata sostenuta per 12-18 mesi
• Circa il 40% di questi pazienti ad alto rischio riceveva evolocumab in monoterapia e il 58% ha raggiunto l’obiettivo 2019 ESC/EAS LDL-C inferiore a 1,4 mmol/L.
• Il raggiungimento dell’obiettivo ESC/EAS per il 2019 è stato maggiore tra i pazienti che ricevevano evolocumab con statine di base ± ezetimibe.
• I nostri dati suggeriscono un ampio divario tra i pazienti eleggibili per PCSK9i e quelli che li ricevono nella pratica clinica e che il raggiungimento degli obiettivi ESC/EAS LDL-C è migliorato dalla terapia combinata e da una soglia inferiore per l’avvio di PCSK9i.
L’intolleranza alle statine e la prevenzione secondaria
«La terapia con evolocumab ha consentito di ridurre il colesterolo LDL di circa il 60%, un dato importante che conferma come anche nella reale pratica clinica questi farmaci siano oggi i più potenti nella riduzione del colesterolo LDL, con un effetto che si mantiene inalterato nel tempo, come abbiamo imparato anche dei trial clinici» osserva Perrone Filardi. Un secondo aspetto interessante relativo alla popolazione coinvolta nella ricerca è rappresentato dal fatto che oltre la metà dei soggetti arruolati nello studio erano intolleranti alle statine. Conferma Perrone Filardi «Il 40% dei pazienti è stato trattato in monoterapia con evolocumab. Anche in monoterapia il farmaco ha portato il 60% circa dei pazienti al target delle Linee Guida del 2019 di 55 mg/dl di colesterolo LDL».
L’efficacia della terapia nei pazienti in prevenzione secondaria è fondamentale non solo per mantenere i livelli LDL nei parametri indicati, ma, soprattutto, per abbattere il rischio di eventi cardiovascolari futuri. «Il rischio a 10 anni dei pazienti dello studio, che sono a rischio molto alto e con livelli elevati di colesterolo pari a LDL, 150 mg/dl, sarà maggiore di quella, per esempio, di uno studio di registrazione come lo studio FOURIER dove i pazienti entravano con livelli di colesterolo LDL di 90 mg/dl» afferma il ricercatore. «Questo significa che la riduzione del 60%, vale a dire di circa 90 mg/dl, comporta una riduzione del rischio importante, sia in termini relativi, sia in termini assoluti. Si può addirittura stimare una riduzione a 10 anni del rischio assoluto fra il 12 e il 14%».