Fare trading ai tempi del Covid


Fare trading ai tempi del Covid: il settore si è delocalizzato nello spazio virtuale e potenzialmente sconfinato di Internet

Fare trading ai tempi del Covid

Una pandemia come quella che stiamo attraversando è un evento talmente straordinario da avere luogo non più frequentemente di una volta ogni secolo. Logico, dunque, che l’umanità non sia preparata ad affrontarla, e che al tempo stesso sia costretta a navigare a vista in attesa di una soluzione definitiva al problema. Recentemente, è stato Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e principale – ancorché spesso inascoltato – consulente della Casa Bianca in merito alla gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19, ad affermare che il definitivo ritorno alla normalità non potrà verificarsi prima della fine del 2021. Pertanto, a un lungo periodo di adattamento alle nuove condizioni di vita, che ha occupato gran parte del 2020, sta per fare seguito una fase di convivenza con il virus ancora più estesa e, se possibile, impegnativa. Una fase nella quale molte delle coordinate che hanno orientato il nostro vivere in comunità subiranno dei cambiamenti, spesso anche drastici.

Anche il trading si è dovuto adattare al repentino mutare dei tempi. La finanza tradizionale ha fatto registrare un processo entropico, in termini di volume di affari, pari solo a quelli successivi al crollo di Wall Street del 1929 e alla crisi petrolifera del 1973. Proprio 47 anni fa, a seguito del repentino aumento del prezzo del petrolio dovuto al conflitto tra Israele e paesi filo-arabi (Siria ed Egitto in testa), la parola Austerity cominciò a divenire di uso comune in quasi tutti gli stati dipendenti dal petrolio arabo, Italia compresa. Oggi, nel 2020, questa parola è tornata a circolare con prepotenza, malgrado le misure di contenimento della crisi economica e occupazionale poste in essere dall’Unione Europea.

In realtà, il trading non è andato completamente in letargo: si è semplicemente delocalizzato, andando a occupare il “non luogo” per eccellenza della contemporaneità, vale a dire lo spazio virtuale (e potenzialmente sconfinato) della rete. La finanza 3.0 ha sostanzialmente occupato un ruolo vicario della finanza tradizionale, mentre quest’ultima era impegnata a tamponare le emorragie di scambi dovute alla sospensione di una moltitudine di attività produttive. Ovviamente, non per tutti i rami del trading il periodo della pandemia finora trascorso ha coinciso con un’impennata degli affari: ad esempio, il settore del real estate internazionale, che da qualche tempo si è parzialmente trasferito in rete, ha inevitabilmente sofferto l’inabissamento della domanda, vivendo alcuni mesi di autentica apnea finanziaria, interrotta solo di recente da una ripresa – seppure ancora faticosa – delle compravendite. Prevedibile, d’altronde, trattandosi in ogni caso di beni materiali, per i quali una forma di approdo fisico presso di essi – reso perlopiù proibitivo dalle restrizioni negli spostamenti adottate nei vari paesi e tra un paese e l’altro – è indispensabile.

Tutt’altro discorso ha riguardato i beni immateriali e le valute. A cominciare dal mercato azionario, che dopo lo stallo iniziale della scorsa primavera ha visto alcuni settori impennarsi vertiginosamente e altri segnare il passo. Anche in questo caso, ovviamente, l’elemento discriminante è dato dalla natura dell’oggetto delle contrattazioni: logico, infatti, che un settore come quello dei device elettronici – divenuti indispensabili quando lo smart working si è proposto come unica alternativa valida alla chiusura di molte aziende – abbia fatto registrare degli aumenti significativi, mentre quello dell’automotive si sia praticamente fermato. Questa chiara distinzione ha dato modo agli investitori di capire dove orientare i propri affari, ma ha anche aumentato in maniera vertiginosa la concorrenza sui medesimi titoli.

Molto più tetragona e apparentemente inarrestabile è apparsa l’ascesa del mercato valutario. In primis il Forex, che forte di un cluster particolarmente assiduo di trader e investitori ha rappresentato per mesi una sorta di punto fermo della finanza globale. Al punto che, al fine dei venire incontro alle richiese di nuovi potenziali clienti, molti hub di trading online hanno apportato delle modifiche, talvolta anche sostanziali, alle loro specifiche contrattuali.

Ma le vere protagoniste del lockdown globale e dei mesi immediatamente successivi sono state le criptovalute. Se infatti, fino a pochi mesi fa, Bitcoin e consorelle erano considerate quasi alla stregua di mine vaganti per i mercati globali, data la loro imprevedibilità associata a un generico sentimento di sfiducia nei loro confronti, durante la pandemia hanno assunto – in maniera alquanto imprevedibile, persino dagli analisti più esperti e lungimiranti – l’inusitato ruolo di bene rifugio, con un sensibile aumento delle contrattazioni. Che poi non si tratti di un semplice fuoco di paglia dovuto alla situazione emergenziale in cui siamo sprofondati, è ancora presto per dirlo: la prova del tempo, per i nuovi alfieri dell’economia 3.0, è appena iniziata, e il vero rito di passaggio sarà rappresentato dall’indice di persistenza che esibiranno allorché verrà sancito un definitivo ritorno alla normalità.