Il Codice Cospi, manoscritto precolombiano, non avrà più segreti: sarà analizzato con tecniche di imaging iperspettrale e fluorescenza
Il Codice Cospi, manoscritto precolombiano, dipinto tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, non avrà più segreti. Di origine divinatoria nahua (cioè “azteco”) è uno dei pochissimi “libri” precolombiani – una dozzina in tutto – scampati alle ingiurie del tempo e alla furia distruttrice di conquistatori ed evangelizzatori.
Le tecniche pittoriche, i materiali impiegati, lo stato di conservazione, verranno indagati da un’equipe di ricercatori del Centro di Eccellenza Scientific Methodologies Applied to Archaeology and Art (SMAArt) dell’Università di Perugia, dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche ‘Giulio Natta’ (Scitec) e dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale (Ispc) entrambi del Consiglio nazionale delle ricerche, tutti aggregati nella piattaforma di accesso Molab del nodo italiano di E-RIHS.it (http://www.e-rihs.it/).
Tecniche di imaging iperspettrale e fluorescenza verranno impiegate per studiare le complesse tecnologie di produzione del colore sviluppate dagli antichi popoli mesoamericani. In particolare, sarà possibile mappare la distribuzione dei materiali compositivi (sia organici che inorganici) in tutte le pagine, fornendo così l’opportunità di analizzare con un dettaglio prima impensabile le pratiche tecnologiche e pittoriche sviluppate dagli artisti precolombiani.
Il progetto realizzato in collaborazione con il Museo di Palazzo Poggi del Sistema Museale di Ateneo di Bologna, prende avvio presso la Biblioteca Universitaria dove il rarissimo manoscritto del Messico precolombiano è conservato. Le analisi saranno svolte grazie a un finanziamento concesso al Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna dalla Fondazione Carisbo attraverso il bando Arte e Cultura.
Rarissimo testimone di un immenso patrimonio librario condannato in gran parte all’oblio, il Codice fu probabilmente portato a Bologna dal domenicano spagnolo Domingo de Betanzos in occasione di un suo incontro con Papa Clemente VII, avvenuto il 3 marzo del 1533. Da allora è rimasto in città, transitando nella collezione di Ferdinando Cospi e poi in quella dell’Istituto dell’Accademia delle Scienze, sino ad entrare nella collezione della Biblioteca Universitaria di Bologna.
Nel 2006, grazie a una collaborazione tra Davide Domenici (antropologo americanista del Dipartimento di Storia Culture e Civiltà), Antonio Sgamellotti (membro dell’Accademia dei Lincei e allora docente di chimica presso l’Università di Perugia e co-fondatore del MOLAB) e Costanza Miliani, oggi direttrice del Cnr-Ispc e coordinatrice della piattaforma MOLAB di E-RIHS.it, fu realizzata una prima campagna di analisi non invasive sul Codice.
Da quella campagna, la prima del suo genere mai svolta al mondo su un manoscritto precolombiano, sono nati progetti di diagnostica non invasiva, finanziati nell’ambito dei progetti europei di accesso Eu-ARTECH (2006–2009), CHARISMA (2009–2014) e IPERION-CH (2014), che ha condotto il gruppo di ricercatori italiani ad analizzare gran parte dei manoscritti precolombiani oggi esistenti, conservati in istituzioni come il Museo de América di Madrid, il British Museum, il World Museum di Liverpool, la Bodleian Library di Oxford e la Biblioteca Apostolica Vaticana.
A quasi quindici anni da quelle prime indagini, il MOLAB “chiude il cerchio” tornando oggi a esaminare– sotto il coordinamento di Laura Cartechini, responsabile della sede di Perugia di Cnr-Scitec e Aldo Romani, presidente dello SMAArt – il Codice Cospi, al fine di impiegare le nuove tecniche di studio che il rapido sviluppo tecnologico ha messo nel frattempo a disposizione. I risultati ottenuti nel 2006 verranno quindi integrati e arricchiti mediante l’utilizzo di tecniche di imaging macro-XRF (fluorescenza a raggi X) e imaging iperspettrale nel range del visibile (sia in riflettanza che in fluorescenza).
Grazie ad esse sarà possibile conoscere la distribuzione di pigmenti inorganici e mappare l’uso di coloranti organici come l’indaco, impiegato insieme a specifiche argille nella produzione del celebre Blu Maya.