HIV: oggi si può azzerare il rischio contagio ma restano stigma e ignoranza nei giovanissimi. Parla Paolo Bonfanti, Professore di Malattie Infettive
Le terapie moderne per l’infezione da HIV hanno trasformato questa malattia in una patologia cronica. Oggi l’aspettativa di vita di una persona affetta da infezione fa HIV è sostanzialmente sovrapponibile a quella della popolazione generale. “Tuttavia, diversi studi hanno dimostrato una maggior frequenza di alcune patologie non infettive, legate normalmente all’invecchiamento, quali ad esempio le malattie cardiovascolari, per le quali il rischio è quasi il doppio nelle persone con infezione da HIV – ha evidenziato il Prof Paolo Bonfanti, Professore di Malattie Infettive presso l’Università Milano-Bicocca a Monza – Le terapie attualmente a disposizione permettono comunque di abbassare il rischio di sviluppare queste condizioni legate all’invecchiamento, riducendo lo stato di infiammazione cronica che l’infezione determina e che è in parte alla base di esse. Pur trattandosi di regimi terapeutici gravati da minor tossicità rispetto a quelli del passato, possono comunque indurre alcuni eventi inattesi come l’aumento di peso e costituire quindi essi stessi un potenziale fattore di rischio”.
La strategia shock & kill: una speranza per eradicare il virus dell’Hiv
L’Hiv oggi si può controllare, garantendo al paziente una qualità di vita molto simile al resto della popolazione, e si può ridurre la viremia fino ad azzerarne il rischio contagio. Resta di fatto un ultimo limite ancora non superato: l’eradicazione del virus dall’organismo. Uno dei principali ostacoli all’eliminazione dell’HIV dall’organismo è la sua capacità di sopravvivere in forma latente dentro le cellule CD4 (Linfociti T) che si trovano in uno stato non attivo. Queste cellule sono infettate da HIV e lo mantengono in uno stato di latenza: il virus resta così invisibile al sistema immunitario e si formano dei reservoir virali. Soltanto quando il virus comincia a riprodursi, il sistema immunitario rileva la cellula infetta. “La terapia antiretrovirale permette di mantenere un basso livello di replicazione virale durante l’attivazione di queste cellule latenti – evidenzia il Prof. Massimo Clementi, Professore Ordinario di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – Ma, come dimostrato da recenti studi, un’interruzione terapeutica di poche settimane provoca un rimbalzo della carica virale a livelli corrispondenti a quelli pre-trattamento. In un primo momento, è stato affermato che un trattamento antiretrovirale precoce potesse ridurre la possibilità dell’HIV di stabilire dei serbatoi del virus. Altri studi più recenti, invece, sono basati su strategie che mirano a far uscire queste cellule dalla latenza al fine di riconoscerle. L’idea di risvegliare il virus è il primo passo per quella che i ricercatori hanno ribattezzato una strategia di shock & kill, il cui scopo mira a eradicare completamente il virus dal soggetto infettato”.
Le rivoluzioni U=U e PrEP, ma resta lo stigma
In merito alle più significative novità, il 2019 ci ha consegnato un’evidenza scientifica rivoluzionaria, sintetizzata nell’acronimo U=U, Undetectable=Untransmittable, Non rilevabile=Non trasmissibile. Una conclusione che supporta l’efficacia della terapia antiretrovirale nella prevenzione della trasmissione dell’infezione da HIV da persone che hanno raggiunto la soppressione virologica. In altri termini, le persone con HIV in terapia efficace non trasmettono il virus ai/alle partner, grazie alla corretta assunzione della terapia antiretrovirale. “Mi sembra una rivoluzione rimandata per il momento, vista la poca pubblicità data a una scoperta che segna una svolta epocale – dichiara Sandro Mattioli, Presidente Plus, Persone LGBT+ Sieropositive, Bologna – Per i pazienti significa molto, visto anche l’impatto che può avere sullo stigma e contro la discriminazione: siamo passati dalle accuse di “untori” a un fatto scientifico innegabile, per cui le persone con Hiv, se sottoposte a terapia efficace, non sono contagiose. Questa innovazione dunque ha sia una valenza scientifica e clinica, ma anche un peso sociale, culturale e infine psicologico. Proprio su questi elementi si dovrebbe intervenire con iniziative volte a promuovere il messaggio di questa novità”. In tanti, infatti, soprattutto tra i più giovani ancora non sono al corrente di questa svolta, così come persiste un’ignoranza sulle modalità di trasmissione del virus, sui rischi che si corrono e sulle necessarie precauzioni da prendere in merito a comportamenti corretti e modalità di prevenzione. “Un’altra questione delicata è legata alla prevenzione – aggiunge Mattioli – La PrEP, infatti, la profilassi pre-esposizione, che consiste nell’assunzione preventiva di farmaci attivi contro Hiv, è accertata da numerosi studi scientifici come efficace, ma resta poco diffusa e molto costosa, non rimborsata dal SSN, rischia di diventare una prevenzione di classe perché non accessibile da tutti”. Inoltre, in questi mesi, la situazione si è aggravata per la pandemia di Covid-19: le misure prese per far fronte all’emergenza, infatti, hanno reso più complicata sia la gestione delle persone con HIV, sia la prevenzione, a partire proprio dalla PrEP, che ha subito ulteriori difficoltà nell’accesso.
ICAR2020, le nuove sfide degli infettivologi
ICAR 2020, in corso online dal 12 al 16 ottobre, è un Congresso abstract-driven, con una forte interazione tra ricerca di base, translazionale e clinica, ispirato dalla necessità di un linguaggio comune tra comunità scientifica, dei pazienti, particolare attenzione verso i giovani ricercatori, il personale sanitario non-medico, la Community, la società civile. Questa edizione, ridisegnata in digitale, è presieduta dal Prof. Massimo Clementi, Professore Ordinario di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano; da Sandro Mattioli, Presidente Plus, Persone LGBT+ Sieropositive, Bologna; dalla Prof.ssa Cristina Mussini, Professore Ordinario di Malattie Infettive presso l’Università di Modena e Reggio Emilia; il Prof. Guido Silvestri, professore ordinario di Patologia Generale alla Emory University University School of Medicine di Atlanta; il Presidente SIMIT Marcello Tavio, Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona).
Nonostante l’inedita modalità digitale, sono rimasti intatti gli obiettivi, il programma annunciato precedentemente e le consuete caratteristiche. Presentati il 14% di Abstract in più rispetto allo scorso anno. Prevenzione (dal messaggio U=U, alla PrEP al Testing) e innovazione (dalla medicina personalizzata all’eradicazione e alla cura) al centro delle relazioni presentate; “numeri” significativi: 1248 partecipanti, 185 membri della Faculty, 159 della Community, 122 studenti coinvolti nel Contest RaccontART in 40 classi e 7 scuole. Un programma scientifico molto ricco, con 3 corsi Precongressuali, 46 Sessioni scientifiche, 70 comunicazioni orali, 88 poster discussion, 203 Poster exibition, 6 key note lectures, la Mauro Moroni lecture, 2 Meet The Expert. Dei 371 abstract pervenuti, ne sono stati accettati 364 dopo una rigorosa selezione a cui hanno contributo 109 Referee e la Segreteria Scientifica coadiuvati dal Coordinatore Abstract, Franco Maggiolo. L’attenzione a Giovani e Community si è tradotta in 396 Scholarship assegnate (rispettivamente 237 e 159). Dieci i ricercatori selezionati come finalisti per il CROI-ICAR Italian Young Investigator Award, che viene conferito ogni anno durante ICAR insieme agli ICAR 2020 Scientific Committee Awards e ai SIMIT Special Awards. “Il Congresso ICAR di quest’anno è la dimostrazione di come il mondo infettivologico sia dotato di grande resilienza – evidenzia la Prof.ssa Mussini – Nonostante lo tsunami legato al Covid, siamo qua a parlare di temi altrettanto rilevanti come l’infezione da HIV. Siamo riusciti a fare un convegno che ha portato come sempre il paziente al centro: abbiamo posto l’attenzione su tutto il percorso che riguarda l’infezione da Hiv e su alcuni temi di grande rilievo come la gravità delle diagnosi tardive”.