Hangry Butterflies, il documentario di Maruska Albertazzi, racconta la lotta contro l’anoressia di giovani ragazze tra i 14 e i 22 anni
Su Instagram – tra influencer, ‘morti di fama’, food blogger e utenti di ogni tipo – esiste una realtà purtroppo poco conosciuta, ovvero il mondo dei profili ‘recovery’, creati da ragazze, spesso giovanissime, che hanno un obiettivo: vincere la battaglia contro i disturbi del comportamento alimentare (come anoressia, bulimia o ‘binge eating’, ovvero le abbuffate compulsive per riempire un vuoto). E lo fanno, spiega la Dire Giovani (www.diregiovani.it), attraverso il potere della condivisione per farsi forza a vicenda e diventare ogni giorno più consapevoli e unite. Una realtà incredibile che mostra il lato positivo dei social e che si anima dietro l’hashtag #larinascitadellefarfalle. È Maruska Albertazzi ad aver sentito la necessità di raccontare queste giovani guerriere. E lo fa con il documentario ‘Hangry Butterflies’, presentato nei giorni scorsi alla 18 esima edizione di Alice nella Città (la sezione autonoma e parallela alla Festa del Cinema di Roma).
‘Hangry’ è un neologismo nato unendo ‘hungry’ (‘affamato’) e ‘angry’ (‘arrabbiato’) e descrive quella sensazione di nervosismo, rabbia e inquietudine che ci prende quando siamo affamati e non possiamo mangiare. Milioni di donne, in questo momento, sono ‘hangry’ e non perché non hanno accesso al cibo. Perché se lo negano. La regista, che negli Anni 90 ha sofferto di anoressia, porta sul grande schermo il primo incontro dal vivo di un gruppo di queste ragazze. Hanno tra i 14 e i 22 anni e stanno guarendo dal disturbo alimentare. Storie che si intrecciano, che si toccano, che scivolano l’una nell’altra come in un gioco di scatole cinesi. Perché queste ragazze sono una la sponsor dell’altra. Sono oltre 3 milioni in Italia le persone che convivono con disturbi del comportamento alimentare. Tra queste, 2,3 milioni sono adolescenti, come le protagoniste del docu Chiara, Giulia, Nicole e Beatrice.
“Siamo abituati a considerare il web come l’inferno, ma a volte non lo è. Quando ho scoperto questa community ho sentito la necessità di dover parlare di loro”, ha dichiarato Albertazzi. “Così ho chiesto di poter partecipare al primo incontro e di poterle riprendere. Non volevo disturbarle con la macchina da presa -ha continuato – perché loro non erano lì per mostrarsi ma per incontrarsi. Infatti, ho chiesto agli operatori di non interrompere il loro incontro per lasciarle libere. Loro si sono fidate di me e questo è stato un atto di grande generosità”.
L’errore più frequente nel raccontare questi disturbi è quello di “stigmatizzare il problema e di far credere che questo sia solo nella propria testa o solo legato al corpo. Molti sono convinti che ci si ammali di anoressia perché una ragazza voglia fare la modella o cose del genere”, ha detto Chiara. “Parte tutto dalla testa, poi di conseguenza c’è il corpo e non il contrario”, ha aggiunto Nicole, che ha concluso: “Io ho aperto Instagram nel periodo in cui ho avuto il peso più basso e rischiavo di non aprire più gli occhi. Per me è molto di più di un profilo perché ho creato un bellissimo legame di sorellanza con tutte. Nel mio profilo ‘recovery’ posto la foto del piatto e aggiunto una descrizione di quello che ho mangiato, di come è andata la giornata, le sensazioni che ho provato durante il pasto. Oppure posto foto per condividere una vittoria, per esempio quando ho mangiato il gelato, ma anche sconfitte: per esempio, quando mi capita di non mangiare perché ho delle crisi. In questi profili ci si sente liberi di mostrarsi e capiti. Gli altri ti danno forza e ci si aiuta a vicenda”.