Porfiria epatica acuta: in media si verificano sei attacchi l’anno. I sintomi cronici, invece, sono segnalati dal 65% dei pazienti e uno su due li manifesta quotidianamente
Dolore addominale, nausea, debolezza muscolare e stanchezza: sono i sintomi cronici comunemente riscontrati durante gli attacchi di porfiria epatica acuta. Con questo termine si identifica un gruppo di rarissime malattie genetiche causate da mutazioni nei geni coinvolti nella biosintesi dell’eme. Nei pazienti affetti, l’accumulo di intermedi tossici dell’eme, principalmente acido delta-aminolevulinico (ALA) e porfobilinogeno (PBG), è il responsabile delle gravi manifestazioni della malattia: possono insorgere infatti degli attacchi neuroviscerali acuti in grado di mettere a rischio la vita del paziente.
Le uniche terapie che sono in grado di abbassare i livelli di ALA e PBG e quindi di ridurre l’attività della malattia sono l’emina (in modo transitorio), il farmaco givosiran (in modo più prolungato) e il trapianto di fegato (in modo permanente). Oltre agli attacchi acuti, tuttavia, si verificano spesso anche altri sintomi cronici debilitanti e complicazioni a lungo termine.
Non sono numerosi i dati che descrivono la malattia e le attuali pratiche di trattamento nei pazienti colpiti con maggiore gravità: i più importanti provengono dal trial EXPLORE, una sperimentazione che è stata avviata nel settembre 2014, completata nel novembre 2016 e condotta in 21 centri (7 negli Stati Uniti e 14 in Europa). Grazie a questo studio prospettico di storia naturale è stato possibile caratterizzare l’attività della porfiria epatica acuta e la sua gestione clinica nei pazienti che presentano attacchi ricorrenti.
A rendere noti i risultati dello studio EXPLORE, sulla rivista Hepatology, è stato un gruppo multinazionale di esperti. Fra loro anche due italiani: il prof. Paolo Ventura, dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, e la prof.ssa Maria Domenica Cappellini, della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano, che dal 2018 è a disposizione dei lettori di OMaR per rispondere alle domande sulle porfirie all’interno del servizio “L’esperto risponde”.
Nello studio, 112 partecipanti sono stati arruolati e seguiti per almeno 6 mesi: gli individui idonei avevano una diagnosi confermata di porfiria epatica acuta e avevano manifestato almeno 3 attacchi nei 12 mesi precedenti l’avvio del trial, oppure stavano ricevendo un trattamento profilattico. Nel corso di questo periodo d’osservazione, i pazienti hanno riportato una media di 6 attacchi acuti (con un range che andava da zero a un massimo di 52), e il 46% di loro aveva ricevuto la profilassi a base di emina.
I sintomi cronici sono stati segnalati dal 65% dei pazienti, e il 46% di loro li manifestava quotidianamente. Durante lo studio, 98 pazienti (l’88%) hanno subito un totale di 483 attacchi, il 77% dei quali – in media 2 ogni anno – ha richiesto un trattamento presso una struttura sanitaria, la somministrazione di emina o entrambi. Al basale, inoltre, sono stati osservati livelli epatici di RNA messaggero dell’acido delta-aminolevulinico sintasi 1 (ALAS1), di acido delta-aminolevulinico e di porfobilinogeno elevati rispetto al limite superiore della norma negli individui sani, livelli che sono ulteriormente aumentati durante gli attacchi.
“La malattia ha influito negativamente su molteplici aspetti della qualità di vita, ha aumentato l’utilizzo dell’assistenza sanitaria e ha avuto un notevole impatto economico”, sottolineano i ricercatori dello studio EXPLORE. “Questi risultati evidenziano la necessità di nuove terapie in grado di ridurre gli attacchi e le manifestazioni croniche della patologia che compaiono fra un attacco e l’altro, migliorando così la capacità dei pazienti di svolgere le normali attività quotidiane”.