Hiv: ridurre il carico farmacologico dei pazienti più anziani e quelli affetti da comorbidità è possibile secondo gli esperti
«Quando si parla di nuove strategie dobbiamo sempre partire da dove siamo arrivati, per ricordare gli splendidi risultati ottenuti con l’arrivo di diversi farmaci» ha detto il Prof. Massimo Andreoni, Direttore della UOC di Malattie infettive e Day Hospital, Dipartimento di Medicina, Policlinico Tor Vergata di Roma. «I dati ICONA dimostrano che la percentuale di successo delle terapie ha ormai superato la vetta del 90%, con strategie che inizialmente erano basate molto sulla barriera genetica, sulla potenza e la tossicità dei farmaci ma che oggi, se dovessimo definire un trinomio della qualità delle terapie disponibili, diremmo potenza, aderenza e qualità della vita».
Anche in seconda e terza linea di terapia ci sono trattamenti estremamente validi che permettono in tutte le diverse fasi dell’infezione di aspirare a un successo superiore al 90%. Le strategie terapeutiche sono ormai principalmente rivolte alla classe degli inibitori dell’integrasi ma, nonostante questo, è costante la ricerca di nuovi farmaci e di nuove strategie, come le terapie long-acting. Nonostante il successo ottenuto finora c’è un continuo bisogno di nuove soluzioni per risolvere i fallimenti, ma soprattutto perché è cambiata la popolazione con Hiv.
«I dati ICONA mostrano l’invecchiamento della popolazione con Hiv. Ormai i nostri pazienti ultra cinquantenni sono il 40% e invecchiamento significa comorbidità. Quando vengono confrontati con il resto della popolazione mantengono un rischio, per esempio vascolare, significativamente più alto rispetto agli altri».
Non bisogna dimenticare come sia il virus stesso a giocare un ruolo importante nel rischio cardiovascolare, accanto ai noti fattori di rischio come ipertensione, diabete e fumo di sigaretta. La presenza del virus residuale è correlato allo stato infiammatorio che, insieme all’immuno-attivazione, può portare allo sviluppo della sindrome metabolica.
Dovendo parlare di riduzione del carico farmaceutico, la triade composta dalla politerapia, dalla conseguente interazione farmacologica e dal concetto di sospensione dei farmaci potenzialmente inutili è presente in circa il 30% dei pazienti, una numerosità importante. I dati ICONA mostrano che comunque in una percentuale non trascurabile dei pazienti continua a essere presente il problema della tossicità legata ai farmaci, da qui l’importanza della semplificazione della terapia. In termini di tossicità va considerata anche la questione del weight gain, un fattore ben noto che può influire su molte patologie e, come anche nel soggetto sano, essere un elemento di riduzione dell’aspettativa di vita.
«Riguardo alla riduzione del carico farmacologico dobbiamo pensare non tanto a migliorare l’aderenza o la compliance dei nostri pazienti, ma all’impatto che ridurre i farmaci può avere in termini di qualità della vita e metabolici» ha spiegato Andreoni. «Quello che certamente i dati ci hanno fatto vedere è che la riduzione del burden farmacologico certamente non comporta, per le conoscenze che abbiamo oggi, un impatto significativo in termini viro-immunologici. Quindi la riduzione dei farmaci viene inquadrata all’interno del profilo di un malato che sta invecchiando, che assume molte terapie e che può andare incontro ad alterazioni metaboliche che il semplice invecchiamento può comportare e quanto i singoli farmaci possano pesare all’interno del concetto di sindrome metabolica».
Riduzione del carico farmacologico: il trial TANGO
In alcuni studi come TANGO si è cominciato a valutare, al di là dello switch da un regime a 3-4 farmaci a regimi a due farmaci, anche gli effetti non solo dei parametri metabolici a livello del quadro della insufficienza o sufficienza renale o sull’impatto dei lipidi, ma un impatto della sindrome metabolica. «Credo che in questo senso i futuri studi dovranno proprio affrontare questo argomento, che diventa un elemento chiave sulla valutazione prognostica dei nostri pazienti».
Il trial ha valutato soggetti adulti virosoppressi da almeno sei mesi in terapia stabile con TAF per osservare l’impatto di una semplificazione a dolutegravir/lamivudina (DTG/3TC), quindi il significato di una riduzione del burden farmacologico su una strategia terapeutica di successo. I pazienti sono stati stratificati in funzione del fatto che fossero sottoposti a un trattamento boosted, sia esso di inibitori della proteasi o della integrasi, oppure unboosted.
Le caratteristiche dei soggetti al momento dello switch indicavano un quadro di sindrome metabolica nel 10-11% dei partecipanti, uguale nei due bracci, con piccole differenze tra chi proveniva dal regime boosted rispetto all’unboosted, senza particolari differenze anche riguardo al peso corporeo. Mentre è molto più significativo quanto emerso sul quadro metabolico-lipidico, dove l’eliminazione di un farmaco ha comportato un effetto benefico della duplice terapia rispetto alla triplice. Con questo studio si è quindi cominciato a osservare come una riduzione del burden farmacologico possa in qualche modo influenzare alcuni parametri.
Anche sui livelli di insulina sono emerse alcune differenze, soprattutto tra chi proveniva da un regime boosted rispetto all’unboosted. Lo switch alla duplice terapia ha ridotto globalmente in maniera significativa l’insulino resistenza nelle sottoclassi, un effetto evidente nel boosted che tendeva a scomparire nell’unboosted.
«Un dato ulteriore mostra una sindrome metabolica non sostanzialmente diversa tra le due classi, pari all’11 e al 12%. In questo caso chi proveniva dall’unboosted in qualche modo ha risentito meglio della semplificazione alla duplice terapia», ha specificato Andreoni. «In conclusione aver tolto un farmaco non ha sostanzialmente modificato, almeno nell’osservazione a 48 settimane, il peso corporeo mentre ci sono stati dei miglioramenti sui parametri metabolici. In particolare è risultato un aspetto favorevole nella sospensione del TAF soprattutto nel gruppo boosted riguardo a lipidi, insulina digiuno e insulino resistenza, mentre nel gruppo unboosted si è visto un trend favorevole in termini di sindrome metabolica».
«Effettivamente credo che dobbiamo comunque pensare alla riduzione dei farmaci legata all’invecchiamento dei nostri pazienti, dobbiamo sempre valutare il peso di terapie che potenzialmente potrebbero essere inutili» ha concluso. «È importante cominciare ad avere una visione più complessiva del carico farmacologico, soprattutto in prospettiva. Nell’Hiv siamo stati abituati a ragionare a breve termine, ma dobbiamo avere una visione molto più lunga nel tempo, valutando i parametri che possono giustificare le aspettative rispetto alle possibili patologie che i nostri pazienti possono sviluppare».
Semplificazione della terapia tramite il “deprescribing”
«Per spiegare in un’ottica più ampia come eseguire dal punto di vista pratico questa azione di semplificazione della terapia farò riferimento al deprescribing*, applicando alcuni principi ormai consolidati nell’ambito della medicina geriatrica e provando a vedere come si adattano alla gestione della semplificazione della terapia antiretrovirale» ha dichiarato il Prof. Giovanni Guaraldi dell’Unità di Malattie Infettive, università degli Studi di Modena e Reggio Emilia introducendo la sua relazione. «Vi condurrò virtualmente in ambulatorio vi farò vedere cosa faccio io giornalmente quando attuo una strategia di deprescribing di terapia antiretrovirale».
*Deprescribing: cogliere l’opportunità di calibrare il regime terapeutico del paziente, secondo l’effettivo bisogno nel suo percorso di cura (o una parte di esso). Interrompendo la prescrizione di farmaci non necessari per il mantenimento/raggiungimento del benessere del paziente e il mantenimento/miglioramento della sua qualità di vita correlata alla salute.
Viene portato l’esempio di una paziente, Maria, che aveva 46 anni nel 2001 quando è passata alla gestione di Guaraldi. A 46 anni era una donna in pre-menopausa, aveva già ottenuto una buona efficacia della terapia antiretrovirale, in quel momento aveva problemi di obesità, era dislipidemica e ipertesa. Era in trattamento con terapie contro l’ipertensione e assumeva vitamina D. Era in terapia antiretrovirale con Atripla (una combinazione a dose fissa di efavirenz, emtricitabina e tenofovir disoproxil fumarato).
«Nel 2004 Maria ha 50 anni, sta entrando in menopausa e a questo punto cambia qualcosa. Non mi preoccupo solo delle comorbidità e, al di là dell’efficacia viro-immunologica, comincio a considerare la sua fragilità. Sta già assumendo molti farmaci oltre alla sua terapia antiretrovirale, ossia terapie per la dislipidemia, per l’ipertensione, per la sindrome metabolica e per la depressione» ha continuato. «Quando nel 2019 quando ho rivisto Maria ormai 65enne, quindi in età definibile geriatrica, era in post-menopausa. Scopro che è soggetta a cadute e una ridotta performance fisica, ma avendo sviluppato un’insufficienza renale terminale uremica mi devo preoccupare delle sue comorbosità. Inoltre stava assumendo davvero molti farmaci, un burden da 12 compresse».
Un’analisi derivata dalla corte italiana GEPPO su pazienti con Hiv con più di 65 ha mostrato che la politerapia non è una questione solo riservata alle persone di questa età in avanti, ma è strettamente legata agli anni di vita vissuta con l’Hiv. Definendo la polipharmacy la condizione di un soggetto che assume più di cinque farmaci, sussiste una condizione di rischio, perché i pazienti Hiv solo per la terapia antiretrovirale ne assumono già due o tre, e bisogna preoccuparsi del fatto che un eccessivo carico farmacologico è associato un aumento della mortalità e a un maggior rischio di interazioni farmacologiche.
Come effettuare una deprescribing?
Oggi la terapia antiretrovirale non è il burden farmacologico più elevato dei pazienti Hiv e non è necessariamente la terapia più tossica che stanno assumendo, quindi l’azione di deprescribing viene considerata una sorta di calibrazione di un regime terapeutico basato sull’effettivo bisogno del paziente. Ci si deve chiedere se è possibile interrompere qualche terapia, tenendo conto che l’obiettivo finale è il miglioramento della qualità della vita.
«In ambito geriatrico il deprescribing viene affrontato tramite due possibili strategie: il “cutting”, ossia l’eliminazione dei farmaci che non servono (basato su una lista predefinita di farmaci su u algoritmo e sulle evidenze), o la strategia definita “pruning back”, ossia una scelta personalizzata sul paziente, basata sull’opinione del medico e del team che lo supporta, che valuta le comorbidità e lo stato funzionale del soggetto, che non è solo un approccio farmacologico ma un approccio clinico personalizzato sulle condizioni e sulle esigenze del singolo paziente» ha spiegato Guaraldi. «A Maria dai 50 ai 65 anni ho tolto la doxazosina (alfabloccante per il trattamento dell’ipertensione essenziale) perché ero preoccupato dell’ipotensione ortostatica che poteva averne favorito le cadute, e ho tolto la statina. Sono abituato a pensare che in una condizione geriatrica l’obiettivo non è più la prevenzione, ma se le linee guida da un lato che mi dicono che al di sopra del 75 anni la statina non previene proprio più niente, ma contemporaneamente le linee guida Hiv mi dicono che se un paziente è in dialisi la statina va mantenuta, vedete che non è così scontato affidarsi al cutting».
È possibile considerare il deprescribing in caso di una polipharmacy e la prima azione da fare è una drug reconsideration -ha aggiunto- ossia conoscere quali farmaci sta assumendo il paziente, un’operazione non semplice dato che spesso vi sono terapie prescritte da altri specialisti, dal medico di famiglia o di automedicazione. «Una volta ottenute le informazioni sulla situazione basale, devo considerare il deprescribing soprattutto nelle persone più anziane. Riguardo alla terapia antiretrovirale la strategia non sarà il cutting, perché non posso eliminarla in toto, ma posso passare da una triplice a una duplice terapia o anche a una STR, come anche pensare a una terapia long-acting» ha concluso Guarneri.